I catanesi HC-B, alla loro terza prova sulla lunga distanza (ed accasati presso l’australiana Hidden Shoal), si presentano con un corpo musicale ben formato attorno alla silhouette di un’estetica che tocca a definire per comodità Post-rock: otto brani per queste “prove del suono per un film scomparso” che promettono di dissetare chi ama un certo tipo di sonorità.
Un incipit ben preciso; una chitarra elettrica pulita (presto raddoppiato da una seconda elettrica), un glockenspiel che si unisce, ed infine un violino ed una tromba che danno un respiro più arioso all’insieme. E’ solo a metà percorso dentro questa “A dusty book, a city of lights” che il pezzo si ferma, una batteria entra fra lamenti di theremin e abbondante uso di delay mentre un riff potente fa piombare il tutto dentro una fumosa atmosfera acid-rock. La successiva “Dead horse walking”, invece, appare e scompare presto nei suoi due minuti di archi, talvolta crepuscolari, talvolta dal sapore barocco, e nelle note dolenti di un piano. Un lento carillon introduce quindi una “Black” ammantata di ronzii dal sapore analogico: le elettriche suonano al contempo metalliche e malinconiche, e lasciano poi spazio ad una seconda parte che prosegue su linee un po’ meno suggestive e che forse rischiano di apparire “già sentite” (tra arpeggi, theremin, e feedback sotto controllo).
Ma è qui che la sorprendente “Hot afternoon in the bulls’s square” traccia una linea di demarcazione netta nell’economia dell’album: si inizia con un fragoroso basso monocorde accompagnato da batteria e da fiati atonali, che sembrano quasi riuscire ad immergere la composizione in una cacofonia controllata, se non fosse per l’innalzarsi di una melodia ben distinta sostenuta dai fiati, che sbreccia con una bellezza semplice il duro profilo del brano e ne fa il pezzo più vivo e riuscito dell’album.
Una linea di demarcazione che purtroppo marca un’eccellenza qualitativa che si manifesta raramente nel resto del programma. Passano in rassegna “Slow compensation”, o la lunga “Playing with planes” con belle chitarre à la David Grubbs, ma soprattutto con un crescendo conclusivo di scuola Giardini di Mirò che risulta incerto tra genuina intensità e collaudate strategie già sentite. Questa deriva si accentua nella conclusiva “Missing movie”, che, vestendo i panni un po’ sfatti della cavalcata elettrica vicina alle atmosfere dei primi Mogwai evidenzia i pregi e i difetti di un album a metà tra vivide sorprese sonore e scenari già rappresentati.