Modernariato casiotone su un tappeto allucinato di crash. In seconda linea: un piano sbilenco. Così, brevemente, potrebbe essere descritta Buffalo Bill, la prima traccia di questo Miami Ice degli Icy Demons.
Con una intro così si rischia molto. Perlomeno fino a quando non intervengono le armonizzazioni vocali a rendere tutto più comprensibile. Lo sanno bene gli Icy Demons. Lo sanno, a prescindere da un’estetica imprevedibile che sposa divagazioni epistemologiche perfino nel nome (che suonerebbe qualcosa come “gelato caldo”), ma è questo il gioco! Segue la title track con coordinate di pop elettrico di certo più definite, ma sempre a direzione centrifuga, che vengono dapprima cesellate nella successiva 1850 e poi sublimate in quella che, a mio avviso, costituisce il picco del disco: Spywatchers, in cui il figlio informe di Sonic Youth e Stockhausen viene presentato al mondo.
Del resto, posto che le mie orecchie non disdegnino mai gli esperimentini elettroacustici uniti ad uno stillicidio di suoni vintage, fosse anche per questa dannatissima attitudine indie che ho ereditato al pari del colore degli occhi, devo ammettere che, superate le prime riserve (più facile a dirsi…), ho davvero goduto.
Forse perché, in questo filone dell’avanguardia pop, ho intravisto l’onda lunga generatasi con i Talking Heads ed adesso ingrossatasi a dismisura in uno tsunami di collaborazioni, banducole, progetti, progettini oltre che spocchiosette jam sessions a cui sono ormai affezionatissimo. Forse perché la mia tolleranza cresce al pari dei miei gattini, anche se mi rendo conto che la misura sia probabilmente colma, Miami Ice non mi ha disdegnato affatto, anzi!
Quindi dicevamo, ah si…”gelato caldo”! Come non sorridere alla simpatia che ne viene fuori.
È art-pop ma con qualcosina in più di irriverente ed ironico! Gli Icy Demons impiastricciano un po’ con l’altra metà di Chicago (quella dei Tortoise ed Isotope 217 per intenderci), poi con la Philadelfia dei Man Man, ma sanno anche di weird dal sapore canadian (Of Montreal, Frog Eyes e Islands). Il disco in questione è una ristampa. È Leaf questa volta a curarne l’edizione per il mercato europeo dopo quella americana di Obey Your Brain del 2008. Terzo atto della band. A Griffin Rodriguez, meglio conosciuto come Blue Hawaii, si affianca (ça va sans dire) ancora una volta Pow Pow dei Man Man (oltre un pugno di amici/musicisti), in una collaborazione che si perpetua, del resto, a partire dai Need New Body e che continua a dilapidare, come è nel suo dna, sorsi tropical (Summer Samba) alternati a scorpacciate di psichedelia (vedasi la chiusura affidata a Realize It e Crittin’ Down To Baba’s o la stessa Jantar Mantar), indiepop di fondo e tanto, tantissimo (pure troppo) lo-fi appeal. Che bellezza!