Jan Roth è un tessitore di poesie. Lavora alla sua tela stando seduto davanti a un pianoforte; ogni suono da lui prodotto è un filo della trama. Il giovane musicista tedesco, già batterista nella formazione live allargata degli Hundreds, affiora con un album solista dall’intreccio prezioso e delicato, L.O.W. e rivela tutta la sua straordinaria sensibilità.
Roth si muove a cavallo fra un astrattismo visionario e allucinato e una tangibile materialità di contenuti, fra spinta utopistica verso l’Ideale e rigida concretezza compositiva. Il risultato di questa duplice natura è un lavoro trasognato, che gioca sui forti contrasti: luce/buio, giorno/notte, realtà/sogno. L’andamento di tutto il disco si basa proprio su queste progressive alterazioni emozionali: le prime tracce, luminose ed arieggiate, si abissano gradualmente verso una leggera malinconia, fino a collassare negli ultimi momenti in una pigra e attonita tristezza. Ciò nonostante, l’atmosfera è permeata da un costante senso di lasciva cedevolezza ed è sempre percepibile uno spiraglio di speranza che filtra, iridescente, anche nei passaggi finali, quelli più bui e complessi.
Roth si concede comunque numerosi momenti di evasione, abbandonandosi a dissonanze improvvise, come nel nevrotico e spigoloso attacco elettro-percussionistico in Rastlos, pezzo già di per sé affetto da un autismo dondolante; cambi di ritmi repentini e, più in generale, slanci verso l’irrazionalità melodica come nell’ovattata Einundzwanzig, brano bipolare, dove la natura nitida e pulita del piano si scontra e confonde con quella fosca e inquieta del tappeto elettronico sul quale la melodia si snoda, rimanendo entrambe sospese in un’amalgama goffa e sfrontata.
Nel complesso L.O.W. è una dimostrazione di impeccabile virtuosismo strumentale: un disco perfettamente suonato e altrettanto perfettamente stravolto nei propri punti cardine; un percorso paranoicamente circolare, dove ogni suono implica ed è implicato da quello che lo affianca, senza via d’uscita. Ma proprio questo movimento claustrofobico appare come una sorta di redenzione dal quotidiano rapporto di causa-effetto: una bellezza imponente e fine a se stessa, soffocante nella propria inesprimibilità, divorante. Roth si mette al piano e compone melodie solide e coerenti, ovvero i muri portanti della struttura musicale; dopo di che gioca a bombardare la sua stessa “casa” con elementi stranieri – rullate, suoni elettronici, rumori indefiniti, bpm a caso – creando forme meticce tanto instabili quanto inspiegabilmente affascinanti.
Il risultato è una miscellanea di suggestioni lontanissime l’una dall’altra, più o meno percepibili, che si fondono creando una maschera a tratti spaventosa, a tratti familiare e sorridente: la malinconica delicatezza di Nils Frahm o Peter Broderick, la narcotica oniricità dei Mùm, il mondo allucinato e inaccessibile di David Lynch, e a sprazzi qualcosa di Apparat ed Explosions In The Sky; risulta difficile definire confini netti e precisi.
Ogni traccia possiede una personalità piena e complessa: l’iniziale Glühwürmchen è una promessa soffice e limpida, sussurrata dagli accordi del pianoforte e cadenzata da rullate distanti e fiabesche; la mediana Siebzehn è un pezzo agrodolce, in cui i suoni di piano e tastiere si alternano in un botta e risposta incalzante, fino ad estinguersi in una mescolanza confusa di battiti elettronici; Regen, ultimo brano del disco, è un lento mesto ed elegiaco che conclude il vagabondaggio musicale in un’impalpabile malinconia, un’inquietudine tanto struggente quanto lievemente lattiginosa.
Immaginatela accanto alle immagini ipnotiche di Anémic Cinéma di Duchamp o di Le Retour à la Raison di Man Ray, oppure come accompagnamento per una lettura di André Breton; la musica di Roth si districa convulsamente fra reale ed onirico, a volte strozzata, altre volte rovesciandosi fuori con violenza. Incespica fra rovi d’ombre e sprazzi di luce accecanti, in una sorta di viaggio metafisico. Un disco pudico, dignitoso, puro, ma anche torbido e tormentato.