A sentir lui gli anni ‘80 restano solo sullo sfondo, sono il grunge e il punk le influenze che hanno superato la prova tempo. Paradossale. Dopo l’immersione nella musica sperimentale di John Cage durante gli anni del college, galeotto fu l’incontro con Ariel Pink al California Institute of Arts, il loro istantaneo sodalizio e il progressivo avvicinarsi al synth-pop e a un massiccio revival new wave. In mezzo l’interesse per la filosofia, l’insegnamento all’Università delle Hawaii fino all’attuale dottorato in filosofia politica. Ma non aspettatevi testi ribollenti, liriche infarcite di riflessioni teoriche: le parole, dice lui, vengono in secondo piano, servono solo ad assecondare un uso convenzionale del formato “canzone pop”. Anche qui, un paradosso solo in apparenza. È proprio questo lo sforzo di John Maus, indagare le possibilità della musica pop, sviscerarne meccanismi e disfunzioni, rimescolare riferimenti a tal punto da farli apparire solo dei nomi vuoti, più che fonti d’ispirazione, tanto le creature del musicista del Minnesota sembrano vivere di un’estetica propria, in bilico tra ironia, sperimentalismo e oscurità. Con questo terzo album, il cui titolo è un quote dalle “Quindici tesi sull’arte contemporanea” del filosofo Alain Badiou, l’ambizioso progetto di dissezione pop raggiunge un ottimo risultato, ispessendo le intuizioni dello scorso Love Is Real (2007), esperimento a metà strada tra bizzarria (Rights for Gays) e decadenza (l’apocalittico marasma di sintetizzatori di Tenebrae ne è un esempio). Eppure qualcosa è cambiato. I trenta minuti e poco più di We Must Become… suonano meno dispersi e abbozzati, meglio prodotti, si potrebbe finanche dire più incisivi, nonostante l’impronta surreale di Maus rimanga intenzionalmente sempre presente a tingere alcuni episodi di lisergica inconsistenza. Pressoché invariato l’uso della voce, un crooning sepolcrale obnubilato da echi e riverberi, il più delle volte soffocato e imprendibile come l’ammiccante voce di un trickster. I pezzi sono tutti saturi di tastiere, synth aciduli, drum machine scoppiettanti sempre pronte a confondere i toni. L’esperimento, ancor prima che eccentrico o retrodatabile, risulta estremamente godibile. Se vi cattura il primo minuto di Streetlight sarà davvero difficile smettere. Quantum Leap porta una massiccia dose di levità in zone a dir poco oscure: un’intro di tastiere da video-combattimento, basso irresistibile e batteria supportano i vocalizzi finto minatori di John, una delle combinazioni meno artificiose del disco, che non è sacrilego accostare ai Joy Division, se si considera che è sempre il personaggio paradossale di Maus a filtrare il tutto. La seconda sorpresa è senza dubbio Hey Moon, cui probabilmente beneficia il mood incantato e romantico, piuttosto isolato dal resto del disco. Il pezzo nasce per mano dell’ex White Bread Molly Nilsson, altra esperta di revival synth-pop (uno scarno e personalissimo saggio nel suo These Things Take Time, in cui il brano in questione apparve nel 2008). La voce di John e di Molly si distendono su un piano minimal identico a se stesso per tutta la durata del pezzo, cui si sovrappongono sfavillanti tastiere a creare un’atmosfera notturna, il dormiveglia romantico di due possibili amanti lontani. Degne di nota il distopico inno semiserio Cop Killer, cui è affidato il grumo d’ironia noir tipico di Maus e la finale Believer, intessuta su un organo da synth-chiesa a dir poco assordante, in cui i crescendo vocali di John vanno a confondersi drasticamente, quasi inintellegibili. Un modo davvero peculiare, quello di Maus, di estrarre con acume il bello dall’improbabile.