La storia dei Larsen è lunga ed articolata, sviluppatasi in quasi vent’anni d’attività, che ne ha fatto una delle band più longeve della scena italiana. Nonché una realtà accreditata nell’ambito di un certo rock laterale, di ricerca, di cui oggi rappresenta uno dei nomi di punta a livello internazionale, godendo della stima e del rispetto di nomi autorevoli del panorama indipendente.
Taciuti dalla critica nostrana nella prima parte della loro carriera, oggi il gruppo, che può vantare fra l’altro la stessa line up da sempre, si ripresenta nella doppia veste di Larsen ed XXL, il progetto condiviso con gli Xiu Xiu, con due album di recente pubblicazione (Cool Cruel Mouth di Larsen, da La Fevere It con Little Annie/Annie Anxiety in formazione, e Düde di XXL) che non fanno che confermarne lo spessore autoriale. Oltre che spostare nuovamente l’asse di un suono, che si è ben guardato dall’arrotarsi su se stesso e che, al contrario, è sempre stato pronto al rinnovamento, alla sperimentazione, al rimettersi continuamente in gioco.
Si è discusso di questo ed altro con Fabrizio Modonese Palumbo; non fosse che in coda, tutti gli altri membri, hanno concesso le loro personali playlist che da sole basterebbero a delineare la mappa della loro musica.
Quest’anno ricorre il sedicesimo anno d’attività discografica dei Larsen. Consuntivi?
Abbiamo festeggiato il quindicennale l’anno scorso, con un concerto al quale hanno contribuito i nostri collaboratori più cari quali Baby Dee (Leggi la foto intervista su indie-eye.it) , Julia Kent (ascolta il Podcast con Julia Kent su indie-eye.it) Jamie Stewart (leggi l’intervista a Jamie Stewart su indie-eye.it) ed ovviamente Little Annie che ormai consideriamo essere un membro a tutti gli effetti. Già il fatto di essere ancora qui dopo 16 anni mi sembra di per se un buon consuntivo.
Almeno nella prima metà della vostra carriera il nome Larsen ha circolato molto poco in Italia pur conquistandosi una sempre crescente stima all’estero. Oggi come sono i vostri rapporti con la scena indie nostrana? Ed in generale, quali con il Paese che vi ha dato i natali?
La verità in questo caso sta nel mezzo, abbiamo sempre avuto un buon seguito in italia ne più ne meno che all’estero, dove comunque non è che ci stendano i tappeti rossi, il problema in Italia è ed è stato prevalentemente di visibilità stampa, forse poiché Larsen non è inquadrabile in un genere musicale specifico e la stampa italiana, soprattutto quella amatoriale è d’abitudine di settore.
In base alla tua esperienza, pensi che esista un punto di vista sulla musica italiana all’estero?
Che io mi sia reso conto no, d’altro canto non vedo perchè dovrebbero, non è che in Italia ci si ponga particolari domande sulla musica croata, tanto per fare un esempio. Alla fine conta la musica di per sè ed eventuali specificità dovute alla nazionalità “altra” al limite la possono rendere più interessante in quanto “esotica” ma la questione finisce lì.
Qual’è la storia dei Larsen? Cosa è successo prima di No Arms, No Legs: Identification Problems?
Nulla di particolarmente interessante, davvero.
Una curiosità che ho sempre avuto a tale riguardo, è quale sia stato il percorso che ha condotto un gruppo indipendente italiano ad esordire con un album prodotto da Martin Bisi.
Eravamo all’epoca grandi fan delle produzioni di Martin Bisi, la scena noise new yorkese, soprattutto quella di matrice no wave e poi volevamo sin dall’inizio evitare di chiuderci in un mondo troppo piccolo e registrare il nostro primo lavoro laddove quel suono “viveva” così abbiamo contattato Martin che si è dichiarato interessato.
Ricordiamoci che quello del musicista così come quello del produttore è comunque un lavoro, quindi molto spesso gli accordi seguono, soprattutto in una prima fase, logiche anche “freddamente” professionali.
Come arrivaste, invece, alla Young God Records e come furono/sono i rapporti con una personalità ritenuta così controversa come quella di Michael Gira?
Michael è un gentleman, la sua reputazione di burbero riguarda un passato che non è quello che noi abbiamo condiviso, da un punto di vista creativo la lavorazione di Rever è stata anche molto “crudele” e conflittuale ma questo l’ha resa interessante e decisamente produttiva.
Michael è stato per noi fondamentale nell’aiutarci a scoprire e definire il nostro suono. Diciamo spesso che non ha tanto prodotto il nostro secondo album Rever ma tutti quelli a seguire. Nel senso che ci ha dato mezzi e strumenti per procedere in modo autonomo la nostra personale ricerca.