Da Ravel a Les Baxter c’è un salto che non è solo temporale ma legato anche al consolidamento di un mood che diventa mercato. Con il musicista Texano diplomatosi al conservatorio di Detroit, l’intarsio di elementi esotici impatta sulla superficie Hollywoodiana e ne preannuncia sviluppi, indica strade, codifica quel sound che sarà archiviato sotto il nome di “Exotica”, etichetta che per certi versi non renderà del tutto giustizia al talento visionario del compositore Americano, uno dei pochi capaci di uscire dalle alchimie ingegneristiche del genere grazie ad un linguaggio popolare che nascondeva una stratificazione di senso molto complessa, senz’altro oltre l’idea di semplice abbellimento.
Cherry Red ristampa uno dei capolavori di Baxter e forse uno degli episodi più romantici e allo stesso tempo oscuri della sua discografia. Registrato nel 1961 per la Capitol, Jewels of the sea condensa la sperimentazione tribale di lavori come Tamboo! e African Jazz, dialogando a distanza di dieci anni con quel Ritual of the savage, lavoro di Baxter tra i più influenti per tutta una “space age” che erediterà numerose suggestioni fino a Sun Ra.
Jewels of the sea è la versione probabilmente più visionaria dell’eredità Baxteriana, una sorta di “cathedrale engloutie” espansa, un’avventura acquatica che per certi versi spettacolarizza l’impressionismo Debussyano e lo traghetta verso un’esperienza di sogno che fa il paio con l’immaginario cinetico delle produzioni firmate da James Nicholson, padre dell’American international Pictures, casa di produzione per la quale Baxter lavorò a lungo e che fuori dai riferimenti filologici potrebbe comunque evocare un mondo parallelo di immagini sottomarine, da quelle di Rossellini fino a Painlevè, preconizzando ovviamente tutti gli inabissamenti del cinema contemporano, da Zemeckis a Burton, da Jane Campion a Wes Anderson.
Non è un caso che l’esplosione romantica più forte, quella dischiusa dalla title track, altro non sia che una nuova versione di “Katia’s Theme“, brano composto per la colonna sonora di Black Sunday, la versione americana distribuita dalla AIP de “La Maschera del Demonio“, film diretto da Mario Bava un anno prima. Tra eco percussive, un’elettronica non invasiva, un amore strutturale per le combinazioni del minimalismo che anticipano i suoni e l’amore che dimostreranno verso Baxter, musicisti come Loop Guru, David Toop, Robert Fripp, Brian Eno tanto per citarne solo alcuni, Jewels of the sea procede affondando in una dimensione liquida del suono, miscelando grande drammaticità e i ritmi di un continente perduto come segni di un passato che cova sotto la coltre orchestrale; in questo senso è difficile comprendere la cultura etnomusicale di Baxter senza fare i conti con la ricerca di Aaron Copland e quella tra sperimentazione e popular music di Marius Constant; Baxter traspone le loro ricerche in una dimensione prettamente visionaria e cinetica, non rinunciando all’impatto spettacolore ma senza lasciare indietro l’incedere minimale più ossessivo e radicale, basta ascoltare la forma descrittiva e allo stesso tempo acusmatica di Sunken City, traccia opalescente e oscura, prismatica e inquietante.
L’edizione Cherry Red di Jewels of the sea, include, oltre alle 12 tracce originali dell’album Capitol una sorta di enciclopedia Baxteriana, con alcuni estratti da The Sacred Idol, inciso un anno prima e ancora più indietro nella discografia del compositore Americano, Ports of Pleasure del 1957 e il seminale Tamboo! del 1954, tracce utili per ripercorrere molte vite tra quelle di Baxter, inclusa quella legata alla ricerca sonora che gli consentì di inventarsi suoni e atmosfere per la “mostruosa” Yma Sumac.