venerdì, Novembre 22, 2024

Marnie Stern – Marnie Stern (Souterrain Transmissions, 2010)

Già con i primi due lavori, In Advance of The Broken Arm del 2007 e l’ottimo This Is It And I Am It And You Are It And So Is That And He Is It And She Is It And It Is It And That Is That di un anno successivo, la trentaquattrenne newyorchese Marnie Stern aveva fatto parlare di sé per le straordinarie doti di chitarrista math-rock, per la sua tecnica virtuosistica a base di frenetico finger-tapping e per costituire rara presenza femminile nel panorama del genere. Genere che a partire da un terreno comune a base di alta sperimentazione tecnica e accordi dissonanti ha trovato nel tempo le più svariate declinazioni. Con il terzo disco, significativamente omonimo, Marnie conferma la sua appartenenza all’emisfero math innestando ai buoni propositi e ai lasciti dei primi due lavori una cifra stilistica sempre più personale e convincente. Nella sua compattezza superficiale questa terza prova mette sì a frutto il lungo percorso che dai suoi vent’anni ha portato l’artista a perfezionare le proprie capacità tecniche, ma al contempo manifesta un’urgenza di raccontarsi che, se possibile, avvicina l’esperimento più al mondo del cantautorato, in un ibrido affascinante. Non potendo inserirla con agio nell’alveo di compagni di virtuosismo come Lighting Bolt o gli stessi Hella, per lei fonte d’ispirazione, la musica di Marnie viene in genere associata d’ufficio al suo essere donna in un contesto tradizionalmente testosteronico. Lei stessa ironizza e dissacra certe punte di sessismo latente invalse nella stampa musicale in Female Guitar Players Are The New Black, titolo oltremodo geniale, sulla scia di altre sagaci trovate come Plato’s Fucked Up Cave o Roads? Where We’re Going We Don’t Need Roads, apparse sui due dischi precedenti. Un’altra riconferma è la presenza indistruttibile di Zach Hill, degli stessi Hella, riconfermato responsabile assoluto di batteria e produzione. Hill punta a una performance massacrante: la batteria domina il disco con perfezione brutale, incanta e schiaffeggia l’ascoltatore martellando la coltre vocale di Marnie, in bilico tra le spirali dei riff ai limiti dello speed-metal. Il singolo For Ash, che apre il disco, è un esempio perfetto di tale amalgama. La voce di Marnie è borderline, infantile e sovradimensionata e parla in filigrana di dolore e perdita, riferendosi al suicidio di un ex. La sensazione è che si precipiti in caduta libera nelle trame sonore, schiantandosi contro la barriera noise delle chitarre. In Nothing Left i cori fanno  immaginare psicotiche cheerleaders azzuffarsi in una lotta sanguinolenta, smorzata poco dopo dalla più contenuta Transparency is The New Mystery, una sorta di rituale formula di autoincoraggiamento. I testi rimangono per lo più soffocati dagli strumenti, fin troppo occupati a far perdere l’orientamento, ma a ben sentire rispecchiano il felice connubio tra ironia e riflessioni parafilosofiche sui limiti del linguaggio che tanto piacciono a Marnie, come l’impronunciabile titolo del precedente disco lasciava facilmente intuire. La parte centrale dell’album, molto omogenea, si spezza con l’esilarante Cinco De Mayo, il cui verso “You will always be here/ and here/ and hear/ and hear” si infila sottopelle in un crescendo malinconico. L’album si chiude con un’imprevedibile rallentamento distensivo: The Things You Notice ha il piglio di una tregua e congeda l’adrenalina con un’ulteriore, massiccia dose di nostalgia. Marnie Stern si difende bene da stereotipi e giudizi avventati. Pur faticando a isolare singoli episodi capaci di uscire dal mucchio, nel complesso riflette con entusiasmo l’enorme lavoro compiuto dall’artista, capace di disvelarsi in maniera tanto brillante quanto peculiare anche tra i (non-)confini del caos.

Marnie stern su myspace

Redazione IE
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