È significativo che il brano d’apertura di Cattive Abitudini – primo album in studio dei Massimo Volume da undici anni a questa parte, in uscita il 15 Ottobre per La Tempesta – sia un tributo a Robert Lowell, fra i più noti esponenti della poesia confessionale. Emidio Clementi non è etichettabile come un poeta confessionale semplicemente perché ha sempre scritto in prosa. Se si esclude questa piccola clausola formale, possiamo facilmente notare come il nostro sia sempre stato un narratore coinvolto dagli aspetti più banali dell’esistenza, esposti senza filtri, senza pudori. Un autore capace di fare del quotidiano poesia, di sottolineare in ogni occasione quel monotono sublime di cui parla lo stesso Lowell. Non penso solo alle canzoni scritte con i Massimo Volume, ma anche al romanzo autobiografico L’ultimo dio, quello in cui la forza delle parole risplende in maniera più evidente. La quotidianità, spesso tediosa e feroce, ha sempre costituito per Clementi una inesauribile fonte di ispirazione, sia che le vicende narrate gli appartenessero, sia che segnassero le vite di amici, conoscenti, o addirittura di personaggi fittizi, stralci di romanzi mai portati a termine. Una tendenza che, almeno per chi scrive, ha reso impossibile distinguere fra quanto c’era di autobiografico e quanto di immaginario nei testi dell’autore. La vita di Mimì me lo sono sempre figurata simile a quella dei suoi eroi Jim Carroll, Emanuel Carnevali, Arthur Rimbaud: lo vedevo passare da un lavoro all’altro, alle prese con continui problemi di denaro, mentre in privato cercava il sublime in una giornata di pioggia, negli insetti fuoriusciti dallo scarico della vasca, nella fine di una relazione. Anche qui, come in ogni altro album del gruppo, l’immaginario letterario di Clementi popola le canzoni di luoghi, personaggi, situazioni. Il De Niro allucinato descritto in Litio potrebbe incarnare vecchie conoscenze del frontman quali Leo o Rigoni, mentre è difficile non riconoscere lo stesso Emidio nella figura tormentata dal proprio passato celebre in Invito al Massacro. Il resto sono donne avute e perse, riflessioni sulla condizione umana racchiuse in un guscio di conchiglia, ossessioni passate e presenti. Le parole, dunque. Impossibile non tenerne conto quando ci si relaziona ai bolognesi. Ma naturalmente c’è anche la musica. C’è il basso profondo di Clementi, la batteria marziale di Vittoria Burattini, la chitarra immaginifica di Egle Sommacal, qui coadiuvato dal giovane e promettente Stefano Pilia – già molto attivo nell’underground bolognese e presente nel live Bologna nov. 2008. C’è quel misto di Sonic Youth, post-rock e Fugazi che ha sempre contraddistinto lo stile dei nostri, declinato in brani talvolta tesissimi (Robert Lowell, Fausto, l’adrenalinica Litio), altrove rilassati e sognanti (Coney Island, La bellezza violata), immersi in malinconiche atmosfere post-blues (Mi piacerebbe ogni tanto averti qui), o tendenti alla narcolessia rituale stile Velvet Underground (Via Vasco de Gama). Non si avvertono sostanziali novità, ma personalmente non ne sentivo il bisogno. I nostri avevano già raggiunto la perfezione formale con Lungo i bordi e Da qui e, tanto per capirci, ci assestiamo proprio su quei livelli. Riunitisi in una villa agli argini del Po’, Emidio, Egle, Stefano e Vittoria hanno registrato in presa diretta, servendosi solo di macchine analogiche (più per una questione affettiva che per scelta ideologica, come ci dicono loro stessi) per fissare su nastro quel che scaturiva dalle loro viscere. Ed ecco il risultato.
C’è davvero bisogno che lo dica? È splendido.
“Celebriamo allora i nostri sforzi, il solco avaro da cui siamo partiti. Chi l’avrebbe mai detto di ritrovarci qui, Giugno 2010, in un pomeriggio di pioggia e di sole, seduti di fronte alle nostre parole?”