A ispirare il terzo album di My Brightest Diamond sono le dinamiche oppositive, i bilanciamenti entropici su cui si regge il nostro pianeta, forze che portano ordine e scompiglio agli atomi, uniscono e separano gli amanti, cambiano le idee nelle teste dei politici. Un canovaccio che, con quel pizzico di ossessione in più, potrebbe calzare alla perfezione un disco di Björk e che qui invece sembra restituire all’ispirazione della straordinaria Shara Worden, di certo una delle voci e delle menti più brillanti dell’indiesfera dell’ultimo decennio, un’immediatezza e un’energia che fanno di All Things Will Unwind l’occasione di un gustoso esperimento. Tanto per cominciare il terzo disco di MBD riparte da zero, chiusosi ormai quel doppio progetto iniziato nel lontano 2004 da cui nacquero i dischi gemellati Bring Me The Workhorse (Ndr: ascolta l’audio Podcast dedicato a bring Me The Workhorse con Shara Worden ospite esclusiva di Indie-eye.it) e A Thousand Shark’s Teeth (Ndr: Shara worden parla di A Thouand Shark’s Teeth in una foto intervista per indie-eye.it) . Ciò di cui si alimenta è di certo la turbinosa esperienza degli ultimi tre anni, influenzata in primis dalla maternità e costellata da un cospicuo numero di collaborazioni: David Byrne, Clogs, Blind Boys of Alabama, Decemberists, il collettivo live di John Cale per il tributo a Nico, l’epica sui generis di Sarah Kirkland Snider (sull’album Penelope), il disco ed evento multi-mediale di Murat Eyuboglu Letters to Distant Cities, per citarne alcuni. Le canzoni del nuovo album nascono lo scorso Gennaio, quando Shara viene chiamata ad esibirsi per il prestigioso ciclo American Songbook organizzato dal Lincoln Center di New York, evento per il quale scrive una buona metà dei pezzi che appaiono su questo lavoro, nati per mostrare al meglio il felice connubio della sua preparazione classica e delle sue doti di compositrice con la sua vena da songwriter pop-rock oltre che di duttile interprete (sentita la sua cover di Tainted Love?). Di questa felice compresenza è piena la discografia dell’ultimo decennio (Joanna Newsom, Owen Pallett, lo stesso Sufjan Stevens) e con questo album Shara prosegue il gioco rimescolando ben bene le carte: scalzate le nebbie dell’oscuro A Thousand Shark’s Teeth (un po’ penalizzato da una staticità che ne fece un lentissimo grower, come si suol dire) All Things… beneficia di una vivacità più immediata, che recupera a mo’ di influenza la tradizione dei musical americani, ma probabilmente anche il filone Motown e la stessa Nina Simone. I pezzi sono stati concepiti per calzare il celebre chamber ensemble yMusic (violino, viola, violoncello, flauto, clarinetto e tromba) già alle prese con Justin Vernon, Sufjan Stevens, Antony e l’amica St. Vincent tra gli altri. Tre i criteri adottati da Shara: tutto acustico; lei avrebbe suonato il meno possibile e in caso solo strumenti di piccole dimensioni. E così All Things… , co-prodotto dal violinista Rob Moose, suona deliziosamente pop, ma con arrangiamenti sopraffini e un sostrato classico onnipresente eppur variegato, in cui alla precisione del sestetto si unisce quella della voce di Shara, ineccepibile nel suo girovagare tra le lande dell’opera, quelle del rock e persino del cabaret. Non pensate agli archi celestiali e all’eleganza insistita di pezzi come From The Top of The World: All Things… riesce a compiere un piccolo miracolo, a suonare “perfetto” e al contempo a non far sentire la mancanza di certe taglienti dinamiche del primo album (basti pensare a pezzi come Golden Star e Freak Out). We Added it Up è il manifesto del disco: nata da una frase di un discorso di Obama celebra la natura ideale dei “disagreeable agreeables”, la fusione e confusione che manda avanti il mondo. Un guizzo, un’altalena di chitarra e fiati che si scioglie nell’epifania dei cori finali: “Love binds the world”. Da un brontolio costante di basso si elevano le orchestrazioni del singolo Reaching Through To The Other Side, un’enigmatica riflessione sulla nascita in cui agli archi è affidata la costruzione di una trama drammatica che nell’ultimo minuto le trombe vanno a vivacizzare. Ancora l’incantesimo dell’inizio anima uno dei pezzi più intensi, In The Beginning, che gioca sulla delicatezza del flauto e di un filo di voce. Un brano del genere funzionerebbe alla perfezione anche in una veste più scarna, con la sola voce di Shara accompagnata dal suo ukulele baritono, ma la veste bucolica degli arrangiamenti del sestetto è troppo bella per rimpiangere alcunché. Shara che ripete “hallelujah” a fine brano chiude con commozione. Dopo il brio amoroso di Escape Routes arriva un altro dei pezzi clou: Be Brave. Richiamando vagamente l’immaginario childish che aveva caratterizzato brani dal compiuto rigore narrativo come The Robin’s Jar, Be Brave, uno dei brani più “rock”, vanta due crescendo impetuosi e una compagine di cori a incalzare la battaglia personale di Shara contro il tempo (Sh-Sh-Sh-Shara now get to work / Sh-Sh-Sh-Shara this is going to hurt). Un pianoforte preparato introduce She Does Not Brave The World, descrizione accorata di uno sfuggente personaggio femminile (perfetto per un musical) tutta affidata ai fiati e all’interpretazione vocale impeccabile della nostra. Ding Dong, scritta con il musicista di Brooklyn Tim Fite (già al lavoro per un remix di Black & Costaud) suona come un misterioso interludio ad alta concentrazione di percussioni e onomatopee in cui Shara racconta l’imprevedibilità delle cose (“In a great SNAFU your arrow bends”). L’ultima parte del disco riserva ulteriori sorprese: mentre There’s a Rat recupera una gradevole matrice folkish grazie al ritmo cadenzato del banjo, High Low Middle, scritta con il batterista Brian Wolfe, torna al tema degli opposti, questa volta a sfondo sociale (“When you’re privileged you don’t even know / when you’re not you know”), scorrendo veloce su una trama jazzy a dir poco irresistibile. La delicatezza della mbira, strumento adottato da Shara per alcuni dei suoi esperimenti più sfiziosi (Apples, varie cover estemporanee) introduce un duetto straordinario con DM Stith (Ndr: leggi qui la foto intervista concessa a indie-eye) , nel disco coautore del pezzo, alla chitarra acustica e anche curatore dell’artwork. Le due voci, più soul del previsto, si alternano dolcemente per unirsi nel verso rivelatore “Everything is in line / all things will unwind”, mentre gli archi sullo sfondo aggiungono il consueto tocco di dramma all’idillio. Finale a carte scoperte con I Have Never Loved Someone, eseguita da Shara solo voce e organo, una storia d’amore commuovente che si chiude con un coro sfumato e la pace nel cuore (“I will find some other way to tell you you’re okay “). Né mancanza né sovrabbondanza, per restare in tema d’opposti. Il genio di Shara è in grado di trovare un equilibrio di stili e soluzioni. Questa volta ha fatto davvero centro.
Reaching Through To The Other Side live @ MusicNOW 2011
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