sabato, Novembre 16, 2024

Ólafur Arnalds – …and They Have Escaped The Weight Of Darkness (Erased Tapes, 2010)

Il secondo album di Ólafur Arnalds giunge a tre anni dal celebrato debutto autoprodotto Eulogy for Evolution, con il quale l’allora ventenne polistrumentista islandese si lasciava alle spalle il passato da batterista in gruppi metal nazionali per imbarcarsi in un progetto tanto nobile quanto coraggioso: portare la musica classica, o meglio, le sue influenze classiche, anche a un pubblico meno familiare con la tradizione. L’ EP del 2008, Variations of Static, confermò le aspettative raccogliendo consensi per lo più unanimi in ogni ambito, anche quello più conservativo. …and They Have Escaped The Weight Of Darkness riprende il filo del discorso, lasciato in sospeso da Arnalds con i due EP dello scorso anno, Found Songs e Dyad 1909, il primo frutto di un esperimento singolare che l’ha visto comporre una canzone al giorno per sette giorni, ciascuna nell’arco massimo di 24 ore, per poi pubblicarla online tramite il proprio sito e Twitter (strumento prediletto del nostro) per i fan, in una sorta di presa diretta. Con questo nuovo disco, coprodotto da  Barði Jóhannsson (Bang Gang), l’approccio minimalista delle precedenti sperimentazioni subisce un’ulteriore evoluzione, puntando a un’alta carica emozionale. La musica di Arnalds ha il suo centro ideale nel pianoforte scheletrico, accompagnato da archi struggenti, occasionali intersezioni elettroniche e percussioni, qui ancora più ridotte all’osso che in passato. Il tutto viene orchestrato con un forte senso della proporzione: la sensazione è che non vi sia alcun elemento fuori posto, che il mood del disco punti a una compattezza estatica in cui ogni singola pausa, ogni sovrapposizione, abbia la propria precisa ragion d’essere. Se da un lato questa limpidezza negli arrangiamenti rientra nel cosiddetto stile di composizione architectural, la sua bellezza cristallina non rischia affatto di restare un mero oggetto di contemplazione: questo lavoro di Ólafur si presta invece, inevitabilmente, alla ricezione personalizzata, alla deformazione in chiave intimistica, a un istantaneo sciabordio d’emozioni. Nelle iniziali, concatenate Þú ert sólin e Þú ert jörðin la stratificazione progressiva di piano e archi conduce da flebili percezioni minimaliste a segmenti di maggior respiro; Tunglið scorre veloce verso aperture orchestrali fino a derive post-rock, per poi recuperare il nervo fragile che attraversa l’intero disco. La circolarità di Loftið verður skyndilega kalt accompagna l’ascoltatore in una buia discesa in cui si ha la sensazione di sfogare le proprie tensioni, poi distillate in Kjurrt dal duetto malinconico di pianoforte e violino. La seconda parte del disco non si discosta da questo andamento, pur lasciando intravedere il barlume di una risalita verso territori più rasserenati, come il titolo stesso dell’album suggerisce. Le chitarra “gilmouriana” e i cori di Gleypa okkur, ma soprattutto Hægt, kemur ljósið, perfetta colonna sonora per lo sbocciare di un nuovo giorno, rischiarano l’atmosfera del disco, ottimizzata in chiusura da una congerie di archi travolgenti. L’esperimento di Ólafur deve ancora spingersi oltre la formula convalidata per destabilizzare: con questo disco il musicista dà certo un’ulteriore prova del proprio talento, lasciando forse l’impressione di mirare a una perfezione che finisce per inabissare il suo spirito rock alla ricerca della costruzione perfetta. Chi non teme di misurarsi con il labor limae dell’artista, tuttavia, avrà modo di fruire di questo disco con gli strumenti del proprio carico emotivo, perdendosi e ritrovandosi al contempo nelle sue trame.

 

Redazione IE
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