L’articolo che segue è un varo della sezione Soundtrack già brevemente comparsa tra le categorie disponibili quando si è parlato di Toru Takemitsu come forma di ricordo senza commemorazione, due giorni dopo la scomparsa di Shoei Imamura. Nel tentativo di trovare una collocazione (è poi strettamente necessario?) a questa sezione all’interno del contesto Indie-eye, mi viene in mente la complessa messa a fuoco di un soundtrack composer; figura culturalmente apolide, lontanissima dalle produzioni indipendenti per mezzi e strumenti di diffusione/coercizione, si avvicina in modo estremo alla versione più dolorosa dell’autonomia, per scelte, ambiti di sperimentazione e attualmente per una cancellazione sistematica di alcuni autori dalla società di tutti gli indiespettacoli che contano, per poi ritrovarli citati, smembrati, sicuramente amati dai giovani archeologi del vintage a go-go. Onore e onere introduttivo sulle spalle di Jon Brion, autore molto vicino a certe free-forme Pop e sperimentatore selvaggio a cui Indie-eye dedica uno speciale in due parti, buona lettura..
Jon Brion e Aimee Mann per Magnolia
Il lavoro di Jon Brion per Magnolia di Paul Thomas Anderson è un meccanismo produttivo complesso e globale. Non è limitato alla struttura di uno Score di coesione tra i vari segmenti narrativi, ma organizza la struttura delle canzoni della cantautrice americana Aimee Mann di cui è produttore esecutivo, come una gemmazione in corso da tema a struttura ritmica. E’ una forma più avanzata e sicuramente meno accattivante della macchina del tempo sonora messa in moto da Boogie Nights: molto funzionale e per certi versi simile ad altri sistemi narrativo-sonori fatti di salti, difetti della memoria, o concentrazioni storiche impossibili (Scorsese, Tarantino).
Le songs e il vero e proprio Soundtrack si muovono su due livelli completamente differenti, arrivando spesso ad un punto di contatto che tende unicamente alla percezione di una frizione irrisolta. Non è un caso che Anderson ricorra ad una qualità sonora vicina alla sovrimpressione in molte sequenze del film; suono ambientale, colonna (portante) sonora, song legata o appiccicata al personaggio; giocando sul contrasto, che potrebbe comunque rappresentare il significante più semplice, attraversa le immagini con un suono rigoroso fatto di blocchi che ne aprono altri e che sopravvivono per aderenza estrema al tempo interno ed esterno delle immagini. I tempi impossibili dell’intreccio casuale ricordano in un modo paradossale ed esplicito i meccanismi di riallocazione di dialogo, struttura e musica elaborati da Egoyan/Danna. Siamo chiaramente su un territorio estremo, ridondante, eccessivo, ma non per questo meno possibile e “scivoloso”. Lo score in un certo modo ricompone in una struttura classica i frammenti esplosi di cinema intimista e melodrammatico di cui Magnolia è composto, e avvicina la scrittura ad un esperimento temporale legato alla funzione di tempo, interna al meccanismo di molte Situation tragedy.
I numerosi climax o anti climax posti come bombe ad orologeria nelle fessure elaborate dalle narrazioni si affidano al collante di una partitura in crescendo, apparentemente tradizionale e legata al gioco di tensione inesplosa. C’è un trucco, percepibile, di annichilimento del tempo spesso elaborato attraverso l’uso di backward recordings, suoni risucchiati, incanti e ripetizioni del campionamento che spostano su una superficie impermeabile le immagini. Il referente citato, abusato e in un certo senso dissacrato è ancora una volta Kubrick. Non tanto attraverso il gioco di citazioni incrociate (una per tutte , Jason Robards/Keir Dullea che morente sul letto, assiste al salto/apparizione di Tom cruise sulle note di Strauss) ma nell’uso glaciale del piano sequenza che in qualche modo unisce e separa i personaggi in un movimento che tende alla fissità e al fotogramma nero.
Il suono viene utilizzato in una direzione fredda, antiespressionista, e per eccesso, violentemente di supporto da risultare deformante. L’epifania di “Wise Up” attraverso la voce di Aimee Mann è davvero un’operazione crudele e allo stesso tempo dolorosa sul corpo del cinema americano di Genere, sotto la forma di un Musical che prende forma come mutazione straordinaria rispetto all’impermeabilità dei frammenti narrativi; è una sequenza grottesca quella del canto collettivo dei personaggi, che aderisce chiaramente al cinema musicale anche recente, ma che chiarisce la posizione di Anderson sull’utilizzo coesivo e disgiuntivo della sezione sonora. La parte direttamente composta da Brion è un meccanismo di attrazione di tutti gli elementi sonori che con una serie di crescendo ritmici ricostruisce il film su un supporto apparentemente classico. In realtà, come in buona parte delle Soap Opera, costituisce una forma di continuum temporale assolutamente sbeffeggiata da una struttura
visivo-narrativa slabbrata da blocchi temporali a se stanti. Come per i nuclei di The Bold and The Beautiful i personaggi sono congelati, sospesi, riacchiappati dopo mezz’ora nel punto esatto dove li avevamo lasciati; come a seguire la retorica dello stop motion introdotta ad inizio film e reintegrata attraverso questa manipolazione cristallizzata del tempo. Lo Score si innesta organizzando una tensione irrisolta, assolutamente priva di sviluppo ma escogitata per ingannarci sul terreno di un miraggio unitario e coerente. Jon Brion, già produttore per Fiona Apple, sviluppa un supporto sonoro complessissimo fatto di Songs originali, contrasti legati ad un uso sperimentale e materico del suono che si tramuta nell’accenno di uno o più temi interrotti nel momento della loro risoluzione melodica. Save Me, alla fine del film, introduce la sua cadenza da Ballad americana sull’inserto sonoro più sovrapposto coprendo una voce in scena e sottolineando l’ultimo primo piano di sconcertante distanza e orrore, prima del nero. Ed è solo una pop song.