L’ultimo ricatto è un album nato sotto il segno dell’instabilità, mutevole e variabile, non assume mai una forma particolare, ma si contorce trasformandosi durante i trentasette minuti che lo compongono. Quarto capitolo per il musicista meneghino, L’ultimo ricatto può essere considerato l’emancipazione di Paolo Saporiti nei confronti dei diversi modelli preponderanti nella precedenti produzioni. Pur non perdendo il legame stabile con la tradizione cantautorale, specialmente inglese, che fa la spola da Nick Drake a Jeff Buckley passando per David Sylvian, Saporiti si rende capace di reinterpretare questo legame alla luce di nuove influenze, di contaminarne lo stile sporcando la neniosa dolcezza del binomio voce e chitarra. Non si può ignorare che in questo percorso un contributo importante derivi dalla collaborazione con Xabier Iriondo, il cui gusto trapela nella scelta degli arrangiamenti e nelle incursioni noise sul finire delle tracce. Deep Down the Water, brano d’apertura del disco, incarna bene quanto detto, poiché accosta all’apertura drakeiana, intima e acuta, una chiusura turbolenta e elettronica. Cambio di registro con War (Need to be Scared) una sorta di spettacolo dell’assurdo, un folk con richiami gitani, infelice in modo beffardo, quasi indifferente che trova la sua stella doppia in We’re the Fuel. In generale, la fitta varietà di strumenti e di arrangiamenti dispiegati, fa de L’ultimo ricatto un lavoro multiforme, vitale e imprevedibile. Che il punto di rottura con la prevedibilità mentale arrivi grazie all’introduzione di un sax (The Time is Gone), di un banjo ( Sad Love/Bad Love) o insistendo sulle distorsioni (Stolen Fire, Never Look Back), l’esito cui giunge Saporiti non è mai deludente.