Sempre uguale e sempre diversa la creatura di Glen Johnson, la quale ha incarnato e rappresentato nella sua storia, ormai più che decennale, nelle sue profonde mutazioni, nei suoi continui cambi di line up, il passaggio tra due epoche che paiono oggi così distanti tra loro da rendere difficile immaginare persino un dialogo tra esse. Nati come sigla/copertura per i solitari esperimenti casalinghi in odore d’avanguardia di Glen e transitati verso lidi post prima, un indie omnicomprensivo poi ed approdati alla fine a quel ghost-rock, elegante e crepuscolare, di cui sono orgogliosi, unici, interpreti, i Piano Magic hanno via via opposto alle preoccupanti derive e miserie della realtà della musica odierna, un’ostinata ricerca di classicità. Il ché significa, come ogni neoclassicismo che si possa dire tale, guardare ad un epoca aurea e farla rivivere prima di tutto in spirito ed in secondo luogo in una forma ideale ed idealizzata.
L’Arcadia di Glen Johnson risiede nel post-punk, o new wave che dir si voglia, della prima metà degli ’80: luogo eletto entro cui plasmare sogni, bisogni ed ossessioni, a rischio, anche, di sfiorare l’oleografia ma giusto per allontanarsene progressivamente, in virtù di uno stile sempre personale, a suo modo unico; un luogo entro il quale Johnson si muove con convinzione (anche parallelamente con Future Conditional, con Textile Ranch o in solitaria) e che ha visto partorire alcuni dei capolavori della sua discografia: da Disaffected a Part Monster fino ad Ovations, vero e proprio tributo a quei tempi irripetibili e che sino ad oggi era da considerarsi come l’ultimo vero album della band (frattanto stabilizzatasi intorno ad Alasdair Steer, Franck Alba, Jerome Tchemeyan, e la preziosa voce di Angèle David-Guillou). I veri precedenti di Life Has Not Finished With Me Yet, sono, però, da rintracciare, più che altro, in Home Recordings, sorta di best of in edizione limitata con le riletture in chiave spoglia, da camera, di alcune pagine significative del repertorio della band, e l’ineffabile album solista del leader, Details Not Recorded, un bellissimo enigma anche dopo ripetuti ascolti. Le atmosfere ovattate, la sostanziale semplicità degli arrangiamenti ridotti all’osso (ma sempre, invariabilmente, ricchi) ed il mood rassegnato ed oscuro, trovano immediata corrispondenza proprio con questi due lavori, coi quali partecipa a tracciare l’ennesimo nuovo corso del gruppo. E come avviene per ogni uscita dei Piano Magic, anche Life… è un album che rassicura nella sua pacata imprevedibilità; nel suo scomporre tutti quei segni, quelle influenze, quelle radici, che però restano sempre tali e riconoscibili: Dead Can Dance e Smiths su tutti; Felt e Durutti Column (via Disco Inferno); Cocteau Twins, Young Marble Giants, ecc.
Ma basta l’incipit di Judas, scura e profonda come una vecchia cosa di Bristol, per scompaginare nuovamente le carte: basso sintetico in loop, battuta bassa, odore di medioriente. Che fa il paio con la succesiva The Slightest Of Threads in cui uno scheletro ritmico, d’elettronica e contrabbasso, segna il tempo per un trip hop à la Portishead, coi quali oggi i Magic condividono gli umori depressi ed invernali del disco omonimo della band di Geoff Barrow e Beth Gibbons.
Un album in grigio e nero, insomma, sorretto da una persistente aria di lutto, di tensione da pericolo incombente, ma anche da un beffardo e cinico sarcasmo, molto british, che si esprime, come meglio non potrebbe, nel breve autoinvito a rinviare il suicidio della titletrack (una marcia funebre dove si azzarda, addirittura, una variazione con cambio di tonalità!) o nell’amore tossico della nevrotica Chemical (20 mg). (The Way We Treat) The Animals è, invece, una cinematica elegia dark, come anche la conclusiva A Secret Never Told, dove gli umori celtici, che animano anche la semistrumentale Lost Antiphony, che pare venir fuori proprio dal canzoniere di Brendan Perry,eYou Don’t Need To Tell Me che da par sua ricerca Leonard Cohen, si sposano all’eco sinistra dei Cure di Faith. Higher Definition è uno strumentale tirato, quasi un outtake da Part Monster; mentre nel gioco delle corrispondenze, l’elettronica liturgica di Sing Something si rispecchia nell’apice del disco, Jar Of Echoes: un vortice electro nerissimo; un’annichilente riflessione sull’inesorabilità del tempo, della memoria e, sì, anche della morte; perché, alla penna di Glen Johnson, bastano poche semplici parole per imbastire trame che traggono dal quotidiano gli spunti necessari per farsi letterarie, per farsi romanzo gotico, e, alla fine, può anche darsi che Life… non sia uno dei loro album più riusciti; che non tutti i brani presenti siano ugualmente necessari o ugualmente risolti; che tutto ciò che avevano da dire l’abbiano già detto, e meglio, in passato. Può darsi. O può darsi che sia l’ennesimo capolavoro di un artista esemplare e della sua band che, dopo quasi vent’anni, continua a riprodursi e reinventarsi instancabilmente, mantenendosi ad un livello d’eccellenza molto poco consueto.
[box title=”Piano Magic – Life Has Not Finished With Me Yet (Second Language, 2012)” color=”#5C0820″]
Tracklist
Matin | Judas | Sing Something | Chemical (20 mg) | Lost Antiphony | Life Has Not Finished With Me Yet | (The Way We Treat) The Animals | Jar Of Echoes | Higher Definition | You Don’t Need To Tell Me | A Secret Never Told | (Reprise) [/box]