A ben trentacinque anni di distanza dalla prima uscita, è con particolare interesse e soddisfazione che salutiamo la riedizione di un album fondamentale nell’ambito del progressive italiano, soprattutto alla luce del fatto che nel 1976 quel genere di rock italico, che raggiungeva vertici di importanza e notorietà mondiali insieme a quello britannico, aveva già prodotto risultanti notevoli ben al di là dei confini nazionali: tanto per citarne un paio, Area e PFM avevano già realizzato i loro gioielli (per chi scrive, Arbeit Macht Frei e Per un amico) e, più in generale, tutta la scena del settore viveva una fase per lo più interlocutoria.
Il disco d’esordio dell’allora quartetto genovese (composto, di base, da Andrea Beccari, Aldo De Scalzi, fratello del New Troll Vittorio, Paolo Griguolo e Giorgio Karaghiosoff, oggi sono in sette) rappresentò allora una fresca ventata di novità, soprattutto per la sua collocazione su binari sensibilmente differenti da quelli percorsi nei 4-5 anni precedenti da gruppi affini.
Alle spericolate deviazioni etno-jazz avanguardistiche di Stratos e compagni e alla marcata ispirazione kingcrimsoniana della PFM, Picchio dal Pozzo (così denominati da una figura simile proprio ad un pennuto sul bordo di un pozzo che Karaghiosoff aveva incollato sul retro del testo di una sua poesia) scelsero di battere addirittura le vie di Canterbury, andando a ripescare le influenze, se possibile, ancora più surreali di Soft Machine e Gong, non solo per questo stralciando del tutto l’esperienza dei connazionali che li avevano preceduti.
Come spesso accadeva in quegli anni, anarchia immaginifica e rigore compositivo, oltre ad una solidissima tecnica, si sposavano magnificamente: in aggiunta, il gruppo ligure si schierava in ulteriore controtendenza, abbracciando con decisione, sotto il profilo ritmico, i tempi semplici e non composti, quando in passato accadeva esattamente il contrario, talvolta più come scelta “di stile” che non per reale necessità espressiva.
L’intro di Merta è un esempio piuttosto calzante di questa scelta, per quanto “sotterraneo” ed “implicito”: pur essendo irregolare e assai “elastico”, il tema del pezzo è un vero e proprio riff ripetuto all’infinito, che via via si allunga ed accorcia (ma che suona inevitabilmente “dritto”) costruito su stratificazioni di chitarre acustiche su un unico, apertissimo arpeggio, punteggiato da un glockenspiel fino ad aprirsi nei flauti etnici di Karaghiosoff.
Altra arma che il quartetto sfodera spesso e volentieri è una consistente dose di ironia, sia sotto l’aspetto musicale che lirico, accostando ad un jazz semiparodistico, con uno swing buttato là quasi per caso, una stralunata citazione di Quante belle figlie, Madama Dorè (Cocomelastico). In Napier si fanno largo fiati grotteschi a metà fra la fiera e i giochi circensi, mentre la suite Seppia esplora le cavalcate oscure dei Goblin, passando per una parte rapsodica, sino ad una sinistra filastrocca in chiusura.
Singolari, in un contesto del genere, in cui l’accumulo di richiami sembra non fermarsi mai, un utilizzo generalmente piuttosto rarefatto e limitato della batteria, sovente rimpiazzata da percussioni più minimali, e un massiccio utilizzo dei fiati (flauti, per lo più) a rivelare un’approccio quasi cameristico ai brani, piuttosto inusuale per l’epoca; e anche le voci, benché piuttosto naif a livello di impostazione, sono usate con intelligenza, soprattutto nel corale de La Floricultura Di Tschincinnata.
Di impianto maggiormente wyattiano risulta, invece, la doppietta composta da La bolla, costituita da un morbido incedere di piano, basso, cori e sax e Off, in cui dominano le rincorse fra pianoforte (meraviglioso il timbro da piano “verticale”) e flauto; la chiusura atonale di Seulement sembra, invece, anticipare la futura svolta para-zappiana del gruppo, che troverà sfogo nel successivo Abbiamo tutti i suoi problemi (1980).
Il gruppo, in realtà, nonostante non abbia poi pubblicato più nulla, ufficialmente non si è mai sciolto, anzi: proprio da qualche anno a questa parte, come ora è usanza diffusa, talvolta ripropone dal vivo proprio il suo esordio. Varrebbe dunque la pena andare a fare una scappata, così come è interessante sbirciare sul sito ufficiale della band (http://www.picchiodalpozzo.com), particolarmente piacevole e ben fatto, per rintracciarne le influenze e ispirazioni, nonché vari aneddoti che hanno accompagnato la loro storia, oramai quasi quarantennale.