Non si può dire che Sebastian Rochford sia un tipo che se ne sta con le mani (o per meglio dire, le bacchette) in mano. Il batterista britannico dall’improbabile chioma, noto ai più per aver preso parte alla prima incarnazione dei Babyshambles, si divide fra il collettivo jazz F-IRE, l’attività di turnista (Joanna MacGregor, Andy Sheppard, la recente collaborazione fra Brian Eno e David Byrne) e numerosi side-project (tra i quali vanno segnalati almeno i fragorosi Acoustic Ladyland). Nei Polar Bear (formazione giunta ormai al quarto album) chiama accanto a se il musicista elettronico Leafcutter John (chitarra elettrica/laptop/rumori), Pete Wareham, Mark Lockheart (entrambi al sax tenore) e Tom Herbert (contrabbasso). La strumentazione impiegata farebbe pensare ad un classico combo jazz, ipotesi che si rivela azzeccata solo in parte e in una certa misura limitante. Il progetto possiede infatti una carica elettrica, funkeggiante ed energica che lo avvicina a tratti a certo avant-rock: una musica dal profilo misurato, tagliente, ai confini col minimalismo, che risente del background sperimentale di Rochford e Leafcutter. Incuriosisce la vena eclettica che serpeggia lungo le 12 tracce di cui si compone questo Peepers. Si va da episodi prettamente modali come le briose Happy For You, Bap Bap Bap o le meditabonde Want To Believe Everything e All Here, al mix di fiati jazz, chitarre in levare e ritmiche serrate della title-track, fino a sconfinare nelle soluzioni free di Bump e Scream (entrambe inferiori ai 40 secondi!). The Love Didn’t Go Anywhere, ebbra di suggestioni cinematografiche, si sviluppa in dilatazione sfiorando apici di malinconia Davisiana. Sul piano prettamente sperimentale si situa invece la destrutturata Drunken Pharao, i cui ritmi sghembi sono integrati da campionamenti di vetri rotti. A New Morning Will Come e Finding Our Feet, sospese in ampolle di drones ambientali, si avvicinano all’elettronica pura, mentre Hope Everyday Is A Happy New Year, appena screziata dagli interventi al laptop di Leafcutter, rappresenta un’eccellente sintesi tra l’anima più accessibile della band e quella più anarchica e avanguardista. Un ottimo lavoro caratterizzato dalla classe innata di Rochford, che riesce ad arricchire ogni brano con incursioni percussive interessanti ed innovative. La musica dei Polar Bear è certamente ascrivibile al genere “alto”, ma possiede le carte in regola per comunicare anche con chi, in ambito jazz, possiede una cultura limitata. E questo è sicuramente un pregio da non sottovalutare.