A suo tempo si è giocato molto, soprattutto con l’insistenza tipica dei media, su questo connubio difficile, quasi per lucidare le ricorrenti e logore fantasie sul set-lager e sull’autorità centrale di un regista che utilizza la sperimentazione, come un codice “underground” rovesciato. Del “rock”,a von trier, manca sicuramente la flagranza. Il Pop, anche nella definizione piu elastica e modificabile, è il congegno che si adatta in modo più cronometrico all’utilizzo falsificante e probabilmente (per questo) stimolante, delle Dvcams. E’ l’effetto del Dogma stesso, che come qualsiasi religione metodista, comincia a funzionare proprio dove l’orologio si inceppa, e risucchia tempo, frammenti, lacrime e vojeurismo tuttinsieme. Che il cinema di Von Trier sia legato più di un qualsiasi sistema di produzione seriale all’annichilimento e alle superfici, è chiaro e pericolosamente programmatico. Viene in mente, a questo proposito, lo scambio di osservatori che David Hockey suggerisce, come traccia per riconfigurare la sua produzione artistica attraverso quella (possibile) del fruitore. L’artista inglese stacca l’occhio al Vojeur e lo confonde in mezzo ai frammenti di memoria cubista dei suoi esperimenti più direttamente fotografici. L’osservatore, privato della funzione più banale dello sguardo, diventa “Partecipator“. E’ un caso, o sarebbe più onesto dire, una suggestione, che il vestito e il volto di Selma/Bjork nelle foto del piccolo Booklet pieghevole interno al CD, sembrano un campione, meno radicale, del foto-corpo frammentizzato di Theresa Russell, realizzato dallo stesso Hockey per Insignificance di Nic Roeg. Il Gioco di Hockey dilania il vettore dello sguardo sulla variazione dell’icona più tipica, quella di Marylin nuda sul rosso. Bjork sembra preferire l’elaborazione della sua immagine al prolungamento del doppio cinematografico, e prosegue nella ricerca di “cover-art” costituite da glaucomi della dimensione di un pixel, piuttosto che da cellule impazzite. Trier non si lascia sedurre facilmente dall’imponderabilità come un Hockney o un Roeg alle prese con la combinazione di un puzzle pieno di pezzi mancanti; cerca di rendere tutto (iper)realista e crono – logico affidandosi a Bjork e (invisibilmente) a Mark Bell per realizzare un musical. Scelta solo apparentemente contrastante e dolorosa. Con le stesse funzioni attraverso le quali il cinema di Trier sviluppa la sua genesi più recente (Da “Breaking the waves” in poi) l’elettronica di Bjork può essere denudata dei suoi “click” e delle interferenze più atonali ascoltando (per esempio) una produzione come Advance , firmata LFO (Mark Bell) nel 1992 e licenziata per la Warp. Il CD in questione è utile per separare i due hyper(pop)testi. Advance si configura come il laboratorio strumentale di Bjork, confezionato con la flagranza di un archivio di Sample già annegato nella forma narrativa di piccole Songs, ma ancora vicino alla raccolta di esperimenti matematici. L’estetica del campionamento (nero o bianco che sia) anche nel caso in cui si utilizzi l’interferenza saturata di un telefono mobile, o la frequenza di un vecchio vinile, tende a neutralizzare la perversione di quel difetto, inserendolo in un meccanismo coerente,dal punto di vista narrativo. Viene in mente, per contrasto, un bel CD della Big Cat, il primo delle Luscious Jacksons, In search of manny, e allo stesso tempo due prototipi fondati sulla perversione di cui stiamo parlando: “Master dik” e “The Whitney album” prodotti dalla factory Sonic Youth a metà degli anni ’80. L’insistita carenza di tracce e di post-produzione intesa come confezione favoriscono, in questi tre master–piece Newyorkesi, un approccio apocrifo e infedele agli stessi campioni, al punto di sballare completamente il cerchio perfetto della ripetizione. Livelli più alti di altri, tagli e montaggi imperfetti, beat completamente fuori assestamento. Biforcazioni del narrato. In-coerenza allo stato puro. Scatterheart, è , all’interno di Selmasongs l’episodio più significativo, ai fini della costruzione dell’arte POP di Trier/Gutsmundottir. L’incipit è quel suono annichilito, Nordico, infantile (“gling glo”) disturbato dall’esotismo più tipico dell’elettropop (o technopop, e così via, anche se mi rendo conto dell’uso improprio e antistorico che stò facendo del/i termine/i), ovvero il vinile segnato dal tempo. O che segna il tempo probabilmente; in Dancer in the Dark la track accompagna la scansione più esplicitamente temporale. Come in altri frammenti, l’estetica che vince è quella che genera il mondo suono/immagine presente in tutti i musical; un suono casuale, il rumore di un macchinario o la puntina di un giradischi che espandono un universo dal percorso antinarrativo e polidirezionale. Eppure scatterheart gioca con le immagini rovesciate, con i cadaveri che resuscitano e la presa diretta che va a puttane. Per fortuna. E’ il momento di commozione più forte, rispetto alla freddezza superficiale e distante dell’esecuzione di Selma. E’ il meccanismo esplicito e quindi nudo nella sua scansione chirurgica, è la frizione tra due realizzazioni (la musica di Bjork, il cinema di Trier) altrimenti perfette e chiuse nel loro referente specifico. Non è il caso di dilungarsi sulle meraviglie della reinvenzione POP creata dalla musica di Bjork, casomai è possibile segnare le tracce paradossali della fusione/disgiunzione Trier/Bjork , concentrandosi sulla ripetizione e l’attenzione rivolta spesso alla concretezza materica dei timbri nella musica dell’artista islandese. Bjork esaspera i fonemi e i sememi di una lingua imperfetta, assolutamente personale, Post per esempio, si stacca completamente dal rischio della confezione impeccabile con episodi come Headphones dove il timbro e la risonanza chiudono il CD con una narrazione satura, ormai frammentata e alla deriva, emozionale e pre-emozionale allo stesso tempo. Con un sistema di segni e di “immagini” opposte , von Trier, in Idioti utilizza l’insistenza Porno come artificio sull’evento fino a spingerlo su di una superfice fredda, anti emozionale.
Dancer in the Dark è mimetico rispetto a Minnelli nel sistema causa/effetto utilizzato come esca per la genesi del mondo “musical”, inteso come universo “altro”, rispetto al narrato. Un affascinante e matematico saggio di scuola, perfido nell’esasperazione dei codici più tipici del genere, assolutamente fedele strutturalmente, che riesce a trasformarsi in com-mozione solo quando l’avanguardia, i giochi sul colore e sullo sguardo, i difetti o le ripetizioni minimali del movimento, diventano segni di mancata sincronizzazione. Due momenti , vorrebbe fermare la mia memoria, il reverse recording (in suono e soprattutto immagine) già citato di scatterheart e la voce improbabile di Catherine Denevue in Cvalda.
I wish I’d only look and didn’t have to touch
I wish I’d only smell this and didn’t have to taste
(Bjork – “Enjoy”)