Appare strano ma in quasi trent’anni di carriera, per Robert Hampson questa è, di fatto, soltanto la seconda volta che appone il suono nome proprio ad un disco, essendo Vectors del 2009 il suo ultimo album (e tralasciano le collaborazioni ed il download gratuito di Maps che era più che altro un esperimento). Così come per quello, anche in Répercussions, Hampson, assembla tre piece monumentali concepite originariamente per fare da commento sonoro a tre rispettivi eventi culturali.
E’ l’Hampson più longevo quello che ci si para innanzi, quello di Main e di Indicate; quello che ha risucchiato i feedback dei Loop e dei Godflesh nei gorghi amniotici di quell’isolazionismo di cui fu uno dei formulatori originari.
Ambient, quindi, nella sua forma più complessa. L’ambient che raggiunge il vuoto attraverso una moltitudine di suoni strutturati e destrutturati; che si articola tra microtonalità e field recordings; quadro acusmatico dalle progressioni narrative che pretendono la massima attenzione per essere decodificate. Un suono che riporta alla mente l’ambient storica, perlomeno nella sua variante dark (Tangerine Dream, Nurse With Wound, :zoviet*france:, il Jim O’Rourke di Disengage o Terminal Pharmacy, Coil, Nocturnal Emissions, la scuola industriale scandinava, ecc.), con un’attenzione, però, anche alle avanguardie colte del novecento (Xenakis, Maderna, Ligeti).
La titletrack, commissionata dal Groupe de Recherches Musicales di Parigi per una performance all’ Akousma Festival, apre il disco tra brulichii, sciabordii e ronzii, sorretti da un bordone elettronico, dove in filigrana è possibile rintracciare il suono di piccole percussioni riprocessate (da cui il titolo) e dei clangori industriali che di quando in quando segnano il passo.
La seconda traccia, eseguita la prima volta per il Planetarium di Poitiers, De la Terre à la Lune, che si ricollega ad Ahead – Only The Stars da Vectors, vuole essere un omaggio a Jules Verne attraverso Kubrick e Tarkovsky ed è un viaggio atonale tra segnali sintetici e distorsioni e sospensioni galattiche, che nel loro lunghissimo dipanarsi (oltre 25 minuti) rendono in musica (?) lo stesso stato di ipnotica attesa dei piani sequenza infiniti di Satantango di Tarr. Salvo poi, nel gracidare della porzione conclusiva, riportare alla mente le proiezioni magiche di Meliès (per restare all’attualità) o più prosaicamente ai lavori dell’entomomusicologo Chris Watson.
Antarctica Ends Here (apparsa in origine in un split Mego con Cindytalk) riporta sulla terra, tra maree polari ed il timido affacciarsi di una melodia resa per note sparse di piano e quello che sembrerebbe un harmonium, avvicinandosi a certi momenti del Boxhead Ensemble di Dutch Harbor, chiudendo ad Uroboro sullo stesso sibilo che apriva la traccia iniziale. Il brano è un omaggio, più che altro una risposta, al John Cale di Antarctica Starts Here da Paris 1919.
Ostico oltremodo, come da genere, l’album non sempre ripaga della fatica dedicatagli. Probabilmente il non essere stato concepito, almeno per 2/3, per un ascolto domestico, grava un po’ sul risultato finale. Così come colpisce l’uniformità dell’insieme, pur avendo origini diverse le tre composizioni.
Il disco esce anche in versione 5.1 DVD.
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Tracklist
Répercussions | De la Terre à la Lune | Antarctica Ends Here [/box]