A distanza di quattro anni da Með suð í eyrum við spilum endalaust, i Sigur Ros si rifanno vivi con Valtari, sesto album in studio. La band – che torna qui ad avvalersi della collaborazione del quartetto di archi Amiina – si presenta in una veste più eterea e intimista, maggiormente vicina a “()”, che non al precedente lavoro. Anche in quest’ultima fatica degli islandesi, possiamo rinvenire echi di Slowdive e Low, come i Radiohead più pastosi e meno rock, il tutto pacatamente distillato nei colori tenui di una ambient che convive con le armonie vocali tipiche del gruppo. Le canzoni – tra le quali troviamo anche tracce totalmente strumentali – sono come tasselli di una grande onda che avanza lentamente, senza mai giungere a infrangersi contro gli scogli. Non a caso, il titolo dell’album, in islandese, significa “rullo compressore”. Un rullo, però, che anziché schiacciarci con violenza, ci invischia in una gradevole malinconia.
S’inizia con l’abbraccio dei fantasmi nordici di Èg Anda, accompagnato da sottili sferragliamenti. L’invocazione di Ekki Múkk è una serenata tra l’astrale e il bucolico. Varúð si apre ad ariosi squarci melodici, culminando in un fragoroso climax. Rembihnútur è un piccolo meccanismo a orologeria di rumori in sottofondo e salvifici saliscendi vocali. In Dauðalogn, la musica accompagna in punta di piedi un canto dal sapore sacro. Varðeldur è un delicato acquerello che si mostra senza pudori, indifeso e plateale. La title-track, che supera gli otto minuti, galleggia fra riverberi quietamente rugginosi e dolci profondità estatiche. Fjögur Píanó è una scheggia di pianoforte e archi trasognati divorata dalla nostalgia.
Siamo di fronte a un disco tutto sommato interlocutorio, certamente non innovativo nel cammino creativo del gruppo, ma piacevole e caratterizzato da un mood umile e dimesso che gli giova. Vartali, infatti, pur senza cambiare mai registro (e indulgendo eccessivamente, a tratti, in semivuoti e/o silenzi), non induce allo sbadiglio, non pretendendo troppo dall’ascoltatore e prestandosi anche a essere gustato a piccole dosi, come un buon liquore che scalda le fredde notti invernali. Ogni traccia è sporcata da sottili crepitii, che scongiurano il rischio di una algidità straniante, riconducendo il paesaggio sonoro alla misura dell’animo (e dell’orecchio) umano. E’ un piacere vagare per i vitrei labirinti architettati dalla band islandese, un’esperienza che merita, ancora una volta, di essere fatta.
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Tracklist:
Ég Anda| Ekki Múkk| Varúð | Rembihnútur| Dauðalogn| Varðeldur| Valtari| Fjögur [/box]