venerdì, Novembre 22, 2024

Spaventapasseri con prospettive omicide: una retrospettiva sul fenomeno Liars – 2/5

A questo punto (rif prima parte speciale liars) l’unità di gruppo si rompe per divergenze artistiche: Andrew e Hemphill, orfani della sezione ritmica, si trovano a portare avanti il progetto senza chiare prospettive sulla strada da seguire. L’abbandono di Noeker e Albertson ha comportato un’inevitabile perdita di compattezza ma i superstiti riescono a trasformare un apparente punto debole in vantaggio, ampliando la propria visione artistica e rivolgendosi in maniera più marcata alle componenti concettuali del suono.

Con la formazione a due i Liars partecipano, insieme agli amici Oneida, alle registrazioni dell’EP Atheist Reconsider: i gruppi licenziano due originali a testa e si coverizzano l’uno l’altro. Andrew e Hemphill mostrano già un approccio prepotentemente sperimentale, deponendo gli strumenti tradizionali e facendo affidamento solo su campionamenti e sintetizzatori. La cover di Rose And Licorice mantiene ancora qualche legame con la forma canzone, i due originali sono invece esempi di creatività totale e costituiscono il banco di prova per l’album successivo. All in all a careful party, contraddistinta da loop ostinati, battimani e percussioni da cucina, presenta un’atmosfera leggera e scherzosa; al contrario, Dorothy taps the toe of the tinman è un inquietante gamelan industriale, sostenuto da un tappeto di sintetizzatore, confusi campioni vocali e rintocchi metallici.

Reclutato Julian Gross alla batteria, il gruppo dà alle stampe il secondo disco nel Febbraio 2004, cogliendo tutti di sorpresa. They were wrong… So we drowned rigetta il suono che aveva reso i Liars una formazione underground in ascesa, dividendo profondamente pubblico e critica: da una parte quelli che vedono nell’album una palude di cacofonia e sperimentalismo fine a se stesso, dall’altra coloro che ammirano i tre per essersi saputi rinnovare dalle fondamenta. Al di là delle opinioni contrastanti, l’opera seconda dei Liars dimostra un coraggio ammirevole e una fedeltà assoluta verso sé stessi. I tre avrebbero potuto capitalizzare sul successo ottenuto fino ad allora se solo avessero riproposto la formula del primo disco. Ma l’arte viene prima di tutto: dimenticare New York e i suoi trend sembra essere l’imperativo che i tre hanno scelto di seguire.

Per farlo si trasferiscono nelle campagne del New Jersey, dove attrezzano uno studio casalingo con l’aiuto di David Sitek (Tv on the Radio). L’oscuro paesaggio boschivo ispira la genesi di un’opera dalle tinte decisamente più fosche, sia sul piano musicale – evidenti le influenze di iconoclasti quali Pop Group, Einstürzende Neubauten e soprattutto This Heat – sia su quello lirico. L’album si pone come un concept sulla stregoneria e sulle leggende medievali riguardanti la Notte di Valpurga, ma il filo conduttore fra i brani va cercato più in certe atmosfere che nella coerenza dei testi. Ascoltato oggi, They were wrong… So we drowned si rivela un passo meno azzardato di quanto potesse sembrare allora. Tutto sommato, costituisce una delle possibili evoluzioni del sound degli esordi. Il ritmo è ancora la componente centrale dell’impasto sonoro, seppur più sghembo e slabbrato rispetto alle prove precedenti. Non c’è traccia di basso, e anche la chitarra è posta generalmente in secondo piano. Si nota al contrario un uso amatoriale e spregiudicato dell’elettronica, spesso alla base dei brani insieme ad una batteria implacabile nella potenza dei suoi colpi. Il singolo There’s always room on the broom è un esempio evidente del nuovo corso, mostruosa caricatura – industriale e marcia – dell’electroclash. Broken witch si avventura in territori attigui: una cantilena demente in cui le parole (“I, I am the boy, she, she is the girl, he, he is the bear, we, we are the army you see through the red haze of blood”) sono solo un pretesto per spezzare il ritmo incessante delle percussioni. They don’t want your corn – they want your kids, tutta arpeggiatori lo-fi e cowbells sintetizzate, sembra una parodia del suono p-funk che a quel punto impazza a New York come nel resto del mondo. Il tribalismo più sfrenato prende il sopravvento nel sabba infernale Hold hands and it will happen anyway, condotto da un riff di chitarra primi Sonic Youth, mentre il rituale di We fenced other gardens with the bones of our own, con il suo assalto di doppia batteria processata e voce in falsetto, costituisce il trait d’union più evidente con l’album successivo. In chiusura, Flow my tears the spider said, si spinge ancora oltre: cupa ballata per organo e voce, termina con due minuti di registrazioni sul campo a base di cinguettii d’uccello. Tanto per essere chiari che d’ora in poi dal gruppo non bisogna aspettarsi niente di buono. Anzi, che non bisogna aspettarsi niente e basta.

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Federico Fragasso
Federico Fragasso
Federico Fragasso è giornalista free-lance, non-musicista, ascoltatore, spettatore, stratega obliquo, esegeta del rumore bianco

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