Il ritorno di Sufjan Stevens con il seguito effettivo di Illinoise del 2005 desta un tripudio di aspettative. Tolto di mezzo ormai da tempo l’iniziale progetto geo-musicale sui cinquanta stati americani, il caleidoscopico cantautore e compositore di Detroit ha fatto del suo meglio negli ultimi cinque anni per depistare ogni possibile previsione, imbarcandosi in collaborazioni e progetti tra i più disparati, culminati nel di poco antecedente EP digitale All Delighted People. Con le sue variazioni sul tema della title-track, con l’alternarsi di un songwriting più canonico a vere e proprie sbornie di cori e orchestrazioni magniloquenti, l’EP ha dato un apprezzabilissimo saggio della nuova potenziale direttrice seguita da Sufjan, inducendo ad attendersi un nuovo disco niente meno che monumentale. Mission accomplished: The Age of Adz è non solo un’opera colossale, ma punta con successo all’imprevedibilità. L’apertura con Futile Devices riporta inevitabilmente ad antiche glorie, depistando non poco gli amanti delle ballad fluttuanti sull’onda di Seven Swans. La successiva Too Much ha su di sé l’onere di aprire le danze del nuovo schizoide esperimento: serpeggiando tra distorsioni rumoristiche da brodo primordiale, la traccia vede Sufjan alle prese con martellanti pulsazioni elettroniche e un cantato in bilico tra hip-hop e, agli antipodi, distensioni corali. L’insieme ha un che di apocalittico e ironico allo stesso tempo, mix giocato sul rovesciamento d’atmosfera, un vortice a base di cori, archi, ottoni e beats sparatutto. Synth analogici e drum machine sono a servizio di un electro-pop che sa esprimere la sua urgenza paradossalmente proprio nel connubio con le orchestrazioni e le mille eteree voci dei cori; le sonorità che fecero capolino in Enjoy Your Rabbit vengono qui ricontestualizzate in funzione di un eclettismo più maturo, sorprendente, forse al suo massimo negli otto coraggiosi minuti di Age of Adz. La traccia eponima si fa portatrice di un riferimento preciso che odora di concept, quello al pittore della Louisiana scomparso nel 1997 Royal Robertson, paranoide e schizofrenico, i cui lavori compaiono come artwork per l’album. Il mondo rovesciato di Robertson è animato da mostri mitologici, creature aliene e profezie sulla fine, spesso alternati da citazioni bibliche e riferimenti religiosi. Pur risultando quasi inevitabile associare un tale sostrato mistico-religioso alla riconosciuta indole da devoto cristiano dello stesso Sufjan, occorre notare quanto in quest’album tali riferimenti manchino del tutto: i temi prescelti (amore, malattia, sesso, morte fra gli altri) sono più vicini a una dimensione personale, per niente ingabbiata in una mole narrativa autoportante come negli album precedenti. Ebbene, Age of Adz, con le sue psichedelie e i suoi spaccati orchestrali condensa lo spirito vitalistico del disco e traduce la pittura disturbata di Robertson affermando “When I die, when I die, I’ll rot/ But when I live, when I live I’ll give it all I got” e verso la conclusione le sferzate elettroniche cessano d’un tratto rischiarando l’atmosfera. I Walked scorre liscia senza particolari perturbazioni ed è sintomatico della riuscita alchimia sonora come il nuovo elettro-Sufjan sembri alle prese con questo tipo di soluzioni da sempre; Now That I’m Older, agli antipodi, è un capolavoro di stratificazioni ad hoc: un piano spettrale, cori inquietanti e la voce commovente del nostro impregnata di disillusione (“I thought I was so in love/Some say it wasn’t true”). La seconda metà del disco culmina in Vesuvius, una teatrale scalata nei territori dell’autoriflessione, in cui i cori interagiscono suggerendo “Sufjan! Follow your heart…”: il pezzo costruisce attorno a sé un’atmosfera da mito, facendo del caos e dell’iterazione le basi per il racconto. Questo piglio auto-incoraggiante, mediato dall’ipnotica All for Myself, si avvia al tripudio con I Want To Be Well, in cui torna massicciamente la componente elettronica, qui predisposta a un frenetico bombardamento sonoro in corrispondenza dell’inatteso verso “I’m not fucking around” ripetuto da Sufjan allo sfinimento fino al congedo. L’album si chiude con una macrosequenza, i venticinque minuti di Impossible Soul, una suite in cinque parti in cui davvero di tutto interagisce: le mescidazioni postmoderne sembrano fin troppo obsolete per calzare questo esperimento, mastodontico calderone di citazioni dagli anni Ottanta, arpe, corni, orchestrazioni filmiche alternate a un cantato vagamente da black music. Nel mentre viene anche ceduta la parola al timbro felpato di Shara Worden, collaboratrice di vecchia data del nostro. The Age of Adz si espone a tutti i rischi da album-calderone, ruota intorno a un ego sovrastante e trova infinite combinazioni per esternare le proprie ambizioni. Il suo lato rivoluzionario investe certamente più il singolo percorso di Sufjan che il cantautorato in generale, ma dà un irresistibile saggio di sperimentazione e rivisitazione dei generi, considerati ormai da tempo contenitori vuoti alla stregua di etichette. Declinato al confine tra la bizzarria e l’apocalisse, l’estro di Sufjan si concretizza in una vera e propria impresa, che nella sua straordinaria varietà permette di scoprire angolature sempre nuove, incrementando al contempo fiducia e curiosità per la prossima mossa.