Che la linea tra ciò che è profondissimo ed è dentro di noi e ciò che è lontanissimo e resta fuori dalla nostra vista sia sottile, lo sapevamo già. Che il siderale e lo psicologico sono solo punti di vista, orientati l’uno all’esterno, l’altro all’interno dell’uomo, era ben noto a maestri più o meno visionari, aiutati dalla mera immaginazione o da prodotti chimici non così legali. The Dark Side of the Moon poco tempo dopo l’uscita fu liquidato sotto il genere cosmic rock o space rock (nonostante questa affermazione possa riguardare, senza essere parzialmente in torto, alcune tracce del primo disco con Barrett); questo avvenne a causa del debole leit motiv scelto per legare titolo, le sonorità dei primi synth e poche canzoni con appellativi spaziali, mentre invece nel concreto il disco aveva come indiscusso protagonista l’essere umano. Il gruppo anglosassone aveva già capito che questo binomio, seppure in apparenza incoerente, aveva un che di immaginifico; in entrambi i casi, studi scientifici avevano aiutato a scoprire alcuni meccanismi prima ignoti. Ma gran parte del funzionamento tanto del cosmo quanto della psiche umana rimaneva fuori da ogni calcolo razionale. E si sa, il fascino dell’ignoto è insito in ogni essere umano. I Teeth of the Sea sembrano aver imparato la lezione, e ce lo dimostrano con questo Your Mercury, seguito di Orphaned by the Ocean. Composto da dieci tracce, Your Mercury si inserisce in un filone inesplorato, inserendo tra le variazioni monotematiche del post-rock dei Mogwai una personalizzazione efficace data dagli insoliti strumenti utilizzati, in primis tromba e percussioni. Gli elementi primari di questo ritratto umano e galattico sono le chitarre, distorte, stracciate, scomposte e ricomposte in ogni modo, con dei synth che generano sequenze d’altri tempi, che solo i Chemical Brothers hanno saputo celebrare degnamente in questi ultimi anni. Ma la prerogativa qui non è ballare, anzi. L’imperativo è riflettere, sia che porti a risultati concreti o a elucubrazioni fini a se stesse: il fascino non viene intaccato. Ogni traccia porta con se una sensazione, una variazione di stato d’animo che resta complicata da descrivere ma che proverò a trascrivere. Il track-to-track è d’obbligo. Transfinite è la breve apertura, la prova più diretta del concetto che ho esposto in apertura. I cori che sentiamo sono echi celestiali del grande concerto nel cielo o canti delle sirene della nostra psiche? The Ambassador avvia veramente il disco, con una chitarra sfregiata, dei tamburi da battiti del cuore alterati dall’angoscia del viaggio e le percussioni sovrastate dai synth che appellano S.O.S. in codice Morse, se esiste ancora qualche forma di vita che può decifrare nello spazio siderale questo linguaggio. Come nei sogni, un’azione si ripete miliardi di volte e non puoi cambiare il corso della narrazione perchè è il subconscio a comandare, così anche nella successiva Cemetery Magus i tappeti di tastiere non ti lasciano mai in pace e suonano ancora, ancora ed ancora. La title track invece costruisce un incedere alla Tangerine Dream che si trasforma in un allarme rosso assieme a una litania alla tromba da funerale. Questo finchè non si rompono le barriere con assoli di chitarra solcano l’infinito. Le ottave al basso rievocano il famoso Eugene che non prestò troppa attenzione, ma l’epicità è cento volte superiore. Midas Rex tarda a partire, ma il generatore unito a un respiro bestiale collega quanto di più celestiale con quanto di più terreno, in una spirale sintetica che possiamo solamente sfiorare. A.C.R.O.N.Y.M. si forgia di pop quasi tamarro, la batteria entra al momento giusto ma non pestando come si deve. Rimedia il basso nell’ultima parte e la chitarra che si sovrappone alle altre centinaia registrate come sottofondo. L’unico possibile singolo. Mothlike sembra una riedizione della traccia precedente, con tutti i pattern riposti in fondo e ora a in primo piano, e riesce a non essere un riempitivo. Red Soil è un caso interessante. La traccia vocale, presumibilmente tratta da un film, viene ripetuta continuamente. Un coro da chiesa, e la frase ripetuta: i knew this people, this two people. Si illumina nella mente una scena. Due voci che ripetono la frase, voci di uomo. Una confessione, una testimonianza: un prete o un commissario? Salvezza eterna o condanna terrena? Vista in questa ottica diventa una delle parti migliori del disco. Horses with Hands è claustrofobia pura: il ronzio di fondo, un tamburellio vago e ritagli di parole, urla, mugugni umani innaturali. Il punto più duro prima della conclusione. Hovis Coil è una complessa sovrapposizione di diverse parti di tromba. Una chiusura degna del beneficio del dubbio, un limbo come l’esistenza umana su questa terra e in questa parte di universo. In conclusione viene da pensare che se non ci fossero echi, riverberi e generatori probabilmente staremmo parlando di sperimentazioni fini a se stessi, ma il prolungamento del suono riesce a trasportare molto più delle tastiere e delle chitarre. E in più la semplicità delle idee coniugata con la complessità della composizione riesce a raggiungere picchi di epicità come non si riusciva da tanto. Fuori dal tempo.