domenica, Novembre 17, 2024

The Howling Hex – The Best of The Howling Hex (Drag City 2013)

Non ho mai creduto che Neil Hagerty fosse un genio, e non lo credo tuttora, sebbene consideri i Royal Trux una delle esperienze più significative, paranoiche e allucinate dello scorso ventennio.
Ciò nonostante, bisogna ammettere come, ogni qualvolta venga fuori il suo nome, ci si trovi di fronte a qualcosa di veramente singolare. A cominciare da quella sua granitica, spesso tenace, presa di posizione contro ogni possibile re-union dei Trux, recentemente smentita, poi, dall’annunciato show di New York City, dove la band, a quanto pare, riproporrà il visionario Twin Infinitives senza la partecipazione di Jennifer Herrema, ex ancora in cerca di un suo equilibrio con i Black Bananas e chissà, forse, mai perdonata.

Un piccolo re(mind) incapace, però, di incidere sulla prolifica media dell’attuale progetto di Hagerty, The Howling Hex, già titolare di un suo probo hype ma, forse, ancora non proprio nella posizione di poter tirar fuori un The best of (se con ciò si è soliti individuare raccolte sterili ed autoincensanti di bands stressate dai loro patetici pantani creativi). Non proprio, appunto,  la dimensione degli Hex che, ancora accasati presso la Drag City (Pavement, Stereolab, Shellac, Ty Segall, ecc..), tirano fuori l’ennesima stramberia camuffata da greatest hits di soli inediti, dove il reale senso è forse quello di intravedere, nell’asfissia ripetitiva delle strutture ritmiche e nelle irritanti linee di chitarra fuzzosa, una sorta di memorabilia di Hagerty.

Eppure, sarebbe facile liquidare un album talmente inverecondo con uno qualunque degli aggettivi spregiativi in uso anche ad un modestissimo vocabolario, a maggior ragione se ciò con cui ci si confronta è un assurdo gioco in cui l’ascoltatore si sorbisce una monotona rassegna di polka, mazurche e marcette noise, con lo stesso um-pa-pa um-pa-pa dall’inizio alla fine. Facile? Pure troppo! Un po’ meno, però, se a scrivere quei brani sia stato uno che ha fatto bisboccia con Jon Spencer e costretto la Virgin a sborsare fior di quattrini. Ancora meno se in quello che sembra lo stigma di uno strano modo di interpretare il garage punk dei Pussy Galore, metterci dentro la follia di Captain Beefheart, This Heat ed Agaskodo Teliverek e fare in modo che tutto suoni come una vecchia balera romagnola (Built a friend, Primetown Clown, Highlights, Electric Northern, Street Craps, The general Prologue, Green Limousine), ci scorgi pure una ricorrente ossessione low-fi, accenni noise e glitch andati a male (Trashcan Bahamas). Davvero poco se, dopo il secondo ascolto, ti ritrovi a cantare a squarciagola monocorde tanto psicotici quanto coinvolgenti.
Impensabile, dunque, che un album così maldestro possa metter d’accordo tutti. Probabilmente, “…you gotta know rockin’ cowboy song…”, e ripetere, ripetere, ripetere.

 

 

 

 

Francesco Cipriano
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Francesco Cipriano classe 1975, suona da molto tempo e scrive di musica.

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