Ad aprire Third è la voce di Claudio Campos, maestro di Capoeira di stanza a Bristol; difficile capire la provenienza del sample, in rete imperversano traduzioni improvvisate dell’originale portoghese e una manciata di interpretazioni legate al titolo provvisorio del brano, che da Wicca è diventato Silence. Quello che è interessante è la qualità del frammento, quasi fosse prelevato dallo score di un vecchio film, simulacro sonoro dove i Portishead si sono sempre trovati a loro agio, qui radicalmente deprivato del potenziale romantico che ha caratterizzato parte del loro suono.
Se per approssimazione volessimo indicare il John Barry di Fancy Dance come molecola originaria di una complessissima contaminazione tra un tempo Jazz fuori dall’ossessione dello standard e una forma orchestrale che cerca di ancorare la libertà dell’incedere inceppandone il ritmo, di tutto questo Third conserva una forma solamente residuale. Il passaggio da John Barry a John Carpenter come mentore esibito è il segno più evidente e coraggioso; è recentemente nota l’infatuazione del trio di Bristol per il regista/compositore americano, dall’invasione delle interviste fotocopia al myspace ufficiale della band dove un fotogramma di They Live ne rappresenta l’avatar, il nome dell’autore nato a Carthage salta sempre fuori.
Del resto, in piena entropia di una scena di cui anche i Portishead hanno fatto parte, Tricky pubblicava il singolo di For real con una traccia inedita intitolata Bombing Bastards, una miscela di orrore e paranoia concepita a partire dal groove di Assault on precint 13, ultima propaggine di uno score ancora apparentemente tradizionale che per Carpenter sancirà il passaggio da una sintesi aliena di funk e Blaxploitation ad un una forma glaciale ed elettronica tra rock e black music, dove la funzione primaria sarà costituita da una rappresentazione inesorabile del tempo.
Queste suggestioni a livello di superficie sonora sono facilmente percepibili in tracce come la dolente We Carry On e la minacciosa Machine Gun, la più Carpenteriana per il livello di aderenza ad un mondo sonoro che è molto vicino ai mostri postindustriali e sinfonici prodotti da Carpenter a partire dal suo sodalizio con Alan Howarth. L’intrusione in un mondo che ritrova tutta la sua forza visionaria e terrifica nell’utilizzo meno seduttivo dei devices analogici avviene seguendo un percorso virale a partire dalle prime due tracce dell’album, ancora illuminate da un’allure che permette di riconoscere le macerie di un sound. Le percussioni di Silence e la struttura su cui si regge Nylon Smile innestano tutti gli elementi potenziali di un immaginario Kraut ridotto ad una versione sintetica e oscura; è sufficiente una ballad come The Rip per capire come questa visione rovesciata faccia riemergere gli elementi più caldi attraverso il timbro glaciale di un synth nell’arpeggio più soul di tutto l’album; quel simulacro di lirismo che faceva parte anche delle prime colonne sonore di Carter Burwell prima di abdicare all’orchesta, oppure tutto il lavoro di denudamento dei classici operato da Wendy Carlos.
Plastic è il regno centrale di questi innesti; soundscape di uno scenario apocalittico ricostruito dai sintetizzatori, Beth Gibbons che delinea un racconto melodico di rara bellezza e quel virus elettronico che fa certamente pensare agli interventi di Burial sul corpo dubstep, ma solo per piccole analogie sonore che non possono ingannare; i Portishead ne possono fare tranquillamente a meno perchè si situano sul limine alieno di un immaginario di sintesi, dove i confini tra quello che è mainstream e quello che non potrebbe (o dovrebbe) esserlo sono miraggi poco credibili; Third ha la difficile capacità di tratteggiare uno scenario contemporaneo non solo musicale, a partire proprio dalla riduzione e dall’irrapresentabilità; la partita completamente persa dai Radiohead e collocata solamente su un piano (facilmente smontabile come un gingillo) di formati, supporti, merchandising oltre il suono.
La collocazione del folk di Deep Water tra le due tracce più industriali di tutto l’album non ha certo il sapore del recupero filologico della tradizione fatto da Bliss Blood , piuttosto permette di immaginarsi l’ologramma stritolato di qualcosa che non è più. Anche il ricordo vagamente psych di Small e Magic Doors, è un elemento soggetto a precari equilibri, scampolo di memoria musicale che serve a tratteggiare un’idea cupa e terribile trascinata da un sustain che arriva sino a Threads, la traccia conclusiva. Una tensione infinita che è certamente tipica di alcune strategie narrative legate alle colonne sonore e che Carpenter utilizzava in modo estremo collegando una traccia all’altra nel bellissimo score per 1997, escape from New York.
Ed è incredibile come frammenti del John Barry Sound tornino ad affacciarsi, svuotati della loro forza popolare e grottesca e ricondotti a quello che l’autore di The Persuaders aveva sperimentato ai massimi livelli in soundtrack come Walkabout o The Ipcress File; archivi sonori che i Portishead conoscono benissimo, annichiliti in drones con la qualità di un’esplorazione temporale; Threads è davvero il brano più spietato e inesorabile di Third, il beat chitarristico è una lenta illusione e porta verso un tunnel di suoni, lamenti, fino a un latrato (letteralmente) per metà animale e per metà tecnologico, con la voce di Beth Gibbons che scompare tra le urla di una colonna sonora per i nostri tempi.
I am one
Damned
One
Where do I go?