Intorno alla seconda metà degli anni ’80 i vinili di Tom Verlaine si trovavano quasi tutti tra i “tagliati”, quella strategia a basso costo che consentiva all’industria di assegnare una seconda vita commerciale agli album, prima di destinarli alla triturazione del macero. Si risparmiavano i costi di applicazione di un bollino adesivo modello Nice Price o Best Buy, con la perforazione diretta della copertina o nei casi peggiori tagliando uno degli angoli superiori del cartone. Questa prassi barbara ha creato strane associazioni nei negozi che vendevano un tanto al chilo alla fine degli anni ottanta, consentendo di trovare dischi come Cover o Dreamtime insieme a cinque copie del primo album di Christopher Cross. Per chi si faceva abbacinare dal nuovo ad oltranza, al netto di un buon background culturale, era possibile snobbare un album seminale come Words From The Front per il suo costo ridicolo e spendere felicemente cifre dignitose acquistando un bel disco, ma nato sulla scia di quella lezione, come Ignite The seven Cannons dei Felt.
Se l’amore di Maurice Deebank per Verlaine è stato tributato con chiarezza lungo tutta la sua carriera, questo non ha sempre attivato le energie giuste, soprattutto in ambito critico, per rimettere insieme la storia dei suoni. Quella critica, riciclata all’infinito sul lessico da bar sport della precedente, si sofferma più volentieri sul miraggio del tutto ininfluente dei Franz Ferdinand ed è capace di trattare con sufficienza Songs and Other Things, l’album di Verlaine recentemente pubblicato da Thrill Jockey.
E fortunatamente il disco è una formidabile fotografia rovesciata e aspra di quella nostalgia attivata da certe emulazioni. La museificazione dei suoni, che non ci porterà da nessuna parte, lascia il posto a quel critico musicale che non può vivere senza il propellente promozionale degli uffici stampa, tanto da dimostrare una fede acritica nelle novità a bassa persistenza dell’indierock, che puntano quasi tutte all’eiaculazione precoce chiamata Hype.
Thrill jockey pubblica il nuovo lavoro di Verlaine dopo un’operazione di recupero di Warm and Cool, l’album strumentale che nel 1992 rappresentò un banco di prova per la reunion dei Television del terzo capitolo. Acquisito dall’etichetta di Bettina Richards, l’album è adesso nuovamente reperibile e serve alla realtà di Chicago anche per fregiarsi di un genoma illustre a cui riferirsi, con un’abile e lodevole strategia retroattiva. L’ondata post-rock dei novanta, viene in qualche modo ridefinita, inserendo nel catalogo uno di quei dischi da cui tutto è scaturito.
Songs and other things, nella storia discografica del Verlaine solista e songwriter si connette maggiormente all’ultimo lavoro dei Television e in minor misura ad un album come The Wonder, ultimo episodio solista con la sua voce, strutturato nel guanto di sperimentazioni funky non del tutto riuscite e che fatta eccezione per tre episodi straordinari, sigillava in una formula un po’ chiusa quella fusione di elettronica/wave/psichedelia che al contrario aveva fatto di Words From the front l’apice della produzione di Verlaine, proprio per la frizione spesso disturbante tra una ritmica tagliata a freddo e la libertà dal ricatto della perfezione che la chitarra di Verlaine minava con un procedimento libero dalla cornice di riferimento.
In quell’esperienza c’era la demolizione del concetto arty come espressione dell’ego, in una direzione esattamente opposta rispetto a quello che accade oggi in una certa New York musicale.
Songs and Other Things non ha praticamente alcun legame con The wonder, ma evita il rischio che Words from the front possa funzionare da attrattore estetico; il confronto quantitativo con le tracce è il primo segno superficiale, 14 tracce della durata media di 3 minti e mezzo, contro i sette brani di Words.. ; un songwriting più conciso che recupera il calore di Dreamtime e soprattutto dell’album d’esordio, se proprio dovessimo cedere al sistemino analogico del riferimento a tutti i costi.
Ma quello che rende stimolante Songs and other things è proprio la scrittura del Verlaine fuori margine e se proprio si vuole, maggiormente jazzistico, che si dibatte in una scatola buona per un
dispositivo pop; basta pensare a brani come Nice Actress o The earth is in the sky, dove la chiusura nel primo caso e lo sviluppo nel secondo procedono attraverso textures chitarristiche di una libertà sorprendente, difficilmente ascrivibili all’economia mnemonica del pop o del punk.
Non credo sia un caso che l’album si chiuda con un brano come Peace Piece, 2 minuti e 37 di lavoro sui livelli che sarebbe piaciuto a Derek Bailey o che ci ricorda l’influenza sui Sonic Youth più contemporaneistici, e che nonostante questo cerca nella concisione una drammatica via di fuga.
In mezzo a tutto questo i testi e il singing di Tom emerge in primo piano. Questo, troppo spesso ignorato e bollato come una bizzarria post-velvetiana tende verso la creazione di un cluster complesso insieme e contro l’intreccio dei layer chitarristici; qualità visionaria dei testi e voce modellata come uno strumento tra gli altri. A questo proposito basta pensare all’incipit di Orbit, dove il tremolo di Tom attacca con versi come: The other girl who just stopped talking / No more would be all right / Blue window here without a frame / A ghost goes through your arms; procedimento visionario a scapito di una concezione narrativa del songwriting, nonostante i soliti, angusti tre minuti di cui si parlava.
Arte del songwriting ed altre cose, come messa in abisso di quello stesso processo. Lo dimostra la pubblicazione parallela di un oggetto che parte da li, ma che si muove con modalità collaterali. Around, l’album tutto strumentale di Verlaine uscito in contemporanea con questo, è certamente un seguito ideale di Warm And Cool, ma mostra l’interesse di Verlaine per due approcci apparentemente antipodali, il cui risultato è la decostruzione della forma canzone per come la conosciamo.