Loop machine, droni, rumori ambientali, emulazioni di altri strumenti, il tutto eseguito in completa solitudine. Messo così, il progetto solista di Francesco Serra, chitarrista sardo poco più che trentenne, potrebbe risultare poco ammaliante e neanche troppo originale.
Fortunatamente, niente di tutto ciò, poiché l’idea portante del progetto si svincola tanto da un semplice sperimentalismo sonoro quanto da sterili tentazioni avanguardistiche, per abbracciare, invece, un approccio da “sinfonia per strumento solo”.
Serra, infatti, connota di sinfonico tutta la sua opera, composta da quattro “movimenti”, ciascuno caratterizzato da temi ben riconoscibili, mescolando abilmente elementi melodici e armonici propri del sistema tonale (rifiutando, dunque, di adagiarsi su soluzioni facili quali puri rumorismi) con altri espedienti propri del suo strumento, la chitarra elettrica, che padroneggia in modo straordinario.
Partendo dal minimo atomico dei gesti sonori comunque estranei ad un’emissione naturale del suono (un singolo drone o feedback o una strappata di pick up), i brani si svolgono lungo digressioni ora dal carattere rapsodico (Part IV, l’episodio dal carattere più “chitarristico”, che sfocia in una vivace cavalcata finale) ora dalle atmosfere più vicine ad un post-rock che non ha nulla da invidiare a formazioni numericamente ben più massicce (Part II si accosta a certe soluzioni armoniche dei Godspeed You! Black Emperor per poi deviare inaspettatamente in un’ossessiva trama di loop machine ritmica e stoppati di chitarra).
Non ultimo, il lavoro di manipolazione sul suono è eccezionale. La chitarra emula via via un violoncello o una sezione d’archi (si veda il sottofinale di Part I, vera e propria variazione sul tema), un flauto o un organo, avvicinandosi a una scrittura quasi da ensemble da camera più che da strumento “rock”, mentre Part III è il brano più “ambientale” del lotto: solo che Eno usava sintetizzatori mentre Serra lavora in “elettrico” e non in “analogico”, sfruttando le rifrazioni della sala di registrazione e tutte le possibilità di angolazione per la ripresa del suono.
Fondamentali, in questo senso, l’apporto di Mattia Coletti in regia e la sua scelta di ripresa “spazializzante” del suono, mixato senza alcun ausilio di effetti digitali (peraltro, come si fa con l’orchestra).
Un disco che restituisce sapore nuovo all’avanguardia, servendone l’aspetto più visionario e affascinante, da gustare allo stesso modo tanto da parte di un ingegnere del suono quanto da un chitarrista abituato ad un genere di ascolti lontano anni luce.