domenica, Dicembre 22, 2024

Uber – Northern Exposure (From Scratch, 2011)

Sette anni di pausa discografica possono sembrare una follia in tempi odierni, in cui produrre un disco, soprattutto se in autonomia, sembra un obiettivo da raggiungere con la massima celerità possibile. Nel caso dei lucchesi Uber ha invece rappresentato la possibilità per ripensare, praticamente ex novo, un progetto che anni addietro si connotava per sonorità math rock. Nel frattempo, Claudio Saettoni ha lasciato il gruppo a favore dell’ingresso di Paolo Malfatti, il quale va ad aggiungersi a Gabriele Frediani e Marco Vannucci (tutti suonano un po’ di tutto). La sterzata è stata decisamente brusca e il salto va a ricadere in un’area che abbraccia, nelle influenze, l’intero decennio dei ’70, cogliendo elementi propri del primo kraut rock tedesco e, in maggior misura, ritmiche no wave della fine del decennio. L’intento di coniugare queste correnti (neanche tanto distanti fra loro, alla fin fine) può dirsi nel complesso riuscito, sebbene con qualche passaggio a vuoto: il gruppo ama e conosce più che bene le fonti da cui attinge a piene mani, ma si ha la sensazione che a volte sbagli il bersaglio. Risultano più efficaci quando non cercano il “singolo” a tutti i costi, ma abbracciano i refrain ossessivi (Spirit Walk, realmente inquietante) e quando non si lasciano fagocitare da chi, negli anni Duemila, ha già saccheggiato tutto il possibile della medesima materia. Colpiscono di più quando azzeccano la frammentazione ritmica che non quando si distendono nel 4/4 più danzereccio. Bastano proprio il biglietto da visita per rendersene conto: la title track d’avvio, marcata da chitarre in dissonanze da sirene metropolitane in contrasto con l’unica nota di basso sincopato e pulsante, stravince il confronto con la successiva Like David Carradine, eccessivamente imbandita di synth che riconducono alle recenti (e un po’ appannate) produzioni di James Murphy et similia. Così come sono molto più credibili i pereubismi di Highway Routine, con una geniale chitarra slide e due efficacissimi soli finali che si intrecciano a meraviglia, o della successiva The Bartender at the “Unconscious” Happy Hour, rispetto al facile appeal disco cercato da Disposable o da Mice Empire. Niente di indignitoso, beninteso, e non mancano idee e pezzi godibili, compreso un finale di disco in crescendo, ma un po’ più di anarchia e di isterismo generale non avrebbe fatto male; resta il fatto che è comunque arduo coniugare paranoia metropolitana e divertimento da dancefloor, dopo che ci si sono buttati in tremila. Gli Uber risultano, alla fine dei giochi, una band che ha dalla sua sicure potenzialità e  mezzi per dire la propria in un genere che, nel giro di qualche anno, sembra aver giocato con troppa fretta quasi tutte le sue carte.

Uber su myspace

Francesco D'Elia
Francesco D'Elia
Francesco D'Elia nasce a Firenze nel 1982. Cresce a pane e violino, si lancia negli studi compositivi e scopre che esiste anche altra musica. Difficile separarsene, tant'è che si mette a suonare pure lui.

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