Quando ci si chiama Adolf Hitler bisogna stare attenti ai propri capelli e ai propri baffi. La distrazione non è una scusante in mitologia cosi come non lo è in politica; Andrè Bazin, un teorico del cinema di vecchia scuola, giocava con queste parole e con i baffetti di Charlie Chaplin ontologicamente pre-esistenti a quelli del “Grande Dittatore”.
E se non si scherza con i mustacchi figuriamoci con il Pop! Baule inesauribile di etichette, il Pop sopravvive grazie ad una serialità così estenuante, capace di confondere ispiratori e illuminati e di presentarsi impunemente come fresca novità. Il Pop ha i suoi impostori e i suoi burattinai e se proviamo a gettarci in una pericolosa tassonomia, possiamo provare a mescolare in un unico pentolone tutta la discografia di Aimee Mann, almeno un cd di Evan Dando; altri tre con Rhett Miller, Fiona Apple, Rufus Wainwright e persino uno sforzo dei polpastrelli di Brad Mehldau.
Ne verrebbe fuori tutt’altro che un bollito, piuttosto la solida, concisa, brillante e soprattutto riconoscibile produzione di Jon Brion.
Un esordio che (sop)porta il titolo di “How Pop Can You Get?” non poteva che essere programmatico; è il 1982, il combo si chiama The Bat e Jon compone, canta e si dileggia con le tastiere. Una manciata di esperienze simili a questa fanno da palestra per lo sviluppo delle qualità polistrumentali del nostro e gli permettono l’ingresso nell’ambito della produzione.
Suonerà eretico ma i colossali e incisivi prodotti di Brion si portano dietro un marchio di fabbrica così ingombrante e accentratore da far apparire il Brian Eno degli anni ’80 come un timido tappezziere di ambient(i) sonori. E’ sufficiente accostarsi senza pregiudizi al secondo Album di Fiona Apple (When The Pawn) e alla pen’ultima fatica da studio di Aimee Mann (Lost In Space) per riconoscere sorprendenti e imbarazzanti analogie sonore. La dimostrazione che i suoi lavori e soprattutto quelli degli altri, sono quasi tutta farina presa dal sacco di Jon, trova una verifica efficace nell’ingresso nel mondo delle colonne sonore che Brion ha recentemente deciso di percorrere.
Magnolia è un collage delle vittime produttive del nostro, guidato dalla pervasività di un’Aimee Mann in forma smagliante, sostanzialmente rappresenta una sorta di prova generale per il vero primo esperimento di musica per il cinema composto da Brion, quel Punch Drunk Love (Ubriaco d’amore) spettro sonoro del bel film di Paul Thomas Anderson, capace di riflettere la struttura obliqua della pellicola nella forma lineare e simmetrica tipica del Pop, sporcata e per-vertita con interferenze sperimentali che trovano una rara coesione tra elementi elettronici e cluster orchestrali.
Ma non ci troviamo di fronte ad un autore che approda alle sicurezze dei raddoppi orchestrali per testare un nuovo impianto surround; Niente Zimmer, neanche gli arditi esperimenti di Howard Shore prima di affondare nella compagnia dell’anello.
Brion è autentico polistrumentista, è un Prince del pop bianco, e ha deciso di provare a cimentarsi nell’orchestrazione con la formazione che gli è propria.
Eternal Sunshine of a Spotless mind, devastato nel nostro paese con un titolo soggettivo indiretto e libero come “se mi lasci, ti cancello” è il secondo capitolo della saga Jon Brion compositore per il cinema. E qui siamo di fronte ad un trucco di prestigio davvero incredibile; score e compilation sembrano indistinguibili, e come per i baffetti di Chaplin-Hitler, Jon Brion ci vuol far credere di essere nato musicalmente prima degli Electric Light Orchestra; dopo un theme che corrode l’orchesta con risucchi e backward masking degni di Lennon-Stockausen, piazza come seconda traccia quella ridondante Mr Blue Light firmata Jeff Lynne e datata 1977, sigillandola con collecting things, una delle tracce strumentali più emozionanti del CD e frutto della passione di Brion per il campionamento di strumenti giocattolo annichiliti in un contesto orchestrale. Bene, conoscete i Polyphonic Spree ? Brion se ne appropria perché sono 29 e perché sono l’ennesimo supercombo che ama frullare tic e generi generici, un po’ alla Flaming Lips o più semplicemente riferendosi alla discografia imbastardita dei Mercury Rev. E gli piacciono questi ragazzi polifonici, tant’è ce li ripropone due volte, tra una ripetizione e l’altra del tema principale e delle sue strategie vertiginose. Anche La voce di Lata Mangeshkar in un classico del cinema Bollywoodiano sembra di Brion e non è una traveggola! tablas percussioni e orientalismo erano una delle scelte specifiche per distruggere il seme del Pop in Punch Drunk Love, e qui ritornano tutte alla fonte. Ma la sorpresa, il fulcro, il grembo genetico di questo monumento alla ricerca di suoni perduti è il sodalizio Beck-Brion consumato nella bellissima Everybody’s gotta Learn Sometime; la salsina agrodolce delle tastiere di Brion e il tappeto di archi si assestano sulla voce nasale di Beck fino a trascinarsi sulle note di un Cymbalon che recupera tutto quell’immaginario soundtracks vicino al John Barry più morbido e romantico Una vera e propria macchina del tempo che nel recentissimo I Hearth Huckabees, messo in piedi per il film di David O Russell, si riassesta sulle lusinghe da estetica cubista di Punch Drunk Love e su un songwriting più marcato, cosi per sciorinare tre, quattro piccoli gioiellini pop in sintonia con le produzioni con cui Brion ci ha abituato in questi anni. E decide di fare tutto da solo, mandando a quel paese ospiti d’eccezione, citazioni colte, abbellimenti elitari. Brion se la canta e se la suona nell’episodio più involutivo della sua carriera, un buona sbornia da Pop, piuttosto che una sorprendente ubriacatura.