domenica, Dicembre 22, 2024

Xabier Iriondo – Irrintzi (Wallace Records, 2012)

Mi sento come il soffitto di una chiesa bombardata” diceva Emidio Clementi, citando Wicked Gravity di Jim Carroll, in Inverno ’85 dei Massimo Volume ed ascoltando Gernika et Bermeo si ha la sensazione spiacevole di vivere le suggestioni evocate da quella frase come fosse la prima volta: ascoltando quella voce, la voce del padre del musicista italo-basco, raccontare gli orrori di uno dei primi bombardamenti a tappeto della storia, avvenuto proprio nella città di Guernica (Gernika in lingua basca) nel 1937 ad opera di squadroni dell’aviazione nazifascista andata in aiuto alla dittatura franchista. Lo stesso massacro consegnato alla memoria dall’omonimo capolavoro di Pablo Picasso. Mentre sotto scorre una marea montante di rumori, fragori, cigolii, detriti e sirene elettronici, ottenuti col cordofono di sua invenzione (il Mahai Metak), si compie l’elaborazione di ogni lutto di guerra, rievocando anche i fatti di Bermeo (l’uccisione di truppe dell’esercito italiano inviate da Mussolini ad opera dei partigiani baschi) e per quanto la lingua possa risultare incomprensibile, l’esperienza della tragedia sembra parlare un idioma comune, subito riconoscibile e struggente; lasciando, quando la puntina giunge alla fine della traccia, ogni riflessione al silenzio.
Giacché Irrintzi, che in lingua basca dovrebbe identificare lo stridore lungo e prolungato provocato dalle grida umane ad imitazione del nitrire dei cavalli, si presenta, almeno nelle prime 500 copie, nell’insolito formato di due vinili da 12” incisi su di un solo lato e serigrafati dall’altro. Ed è il primo vero e proprio album solista del (nuovamente) chitarrista degli Afterhours (ex A Short Apnea, ex Uncode Duello), che in quelle terre vede le sue origini. Origini a cui tributa almeno la prima parte del lavoro, aperta dalle suggestioni etniche di Elektraren Aurreskua, che sul pestare legnoso delle percussioni txalaparta della tradizione musicale dei Paesi Baschi, stende un tappeto di flauti (così vicini a quelli del folklore siciliano), doppiati da un bordone distorto su cui si manifestano, a suggerire immagini di un mondo lontano nello spazio come nel tempo, campioni di voci, suoni, fisarmoniche, onde infrante. Elektraren Aurreskua è anche omaggio dovuto a Gerontocrazia degli Area il cui spirito aleggia sull’intero disco sino a materializzarsi ne il Cielo Sfondato, che parla la lingua, straniante e sporca, di un folk krauto, in cui, su di una semplice sequenza di accordi di chitarra, vanno allungandosi le note del sax di Gianni Mimmo ed il synth di Paolo Tofani.
La titletrack, a seguire senza soluzione di continuità, tiene fede al nome che porta, essendo un violentissimo attacco noise, da cui però emergono inattese suggestioni punk che vanno esaurendosi in una prolungata dissolvenza puntellata da screzi elettronici.
Il registro muta sul secondo vinile, in cui Iriondo affronta ancora le sue radici, in questa autobiografia in note, ma guardando, questa volta, alla propria esperienza d’artista. Cinque cover, dalle provenienze disparate ed inattese rilette, filtrate, slabbrate, distrutte e ricomposte, in un suono che deve più di qualcosa ai Faust di The Faust Tapes ma non solo.
Si tratta di Reason to Believe di Springsteen, resa ancora più scheletrica di quanto non fosse l’originale di Nebraska, spogliata della veste suicidiana e riconsegnata come cacofonica lamentazione blues, rotta da una sequela d’interruzioni e feedback. Di The Hammer dei Motorhead, che diviene quasi black metal, in un’interpretazione caotica ma fedele registrata con gli Ovo; così come piuttosto aderente all’originale è la conclusiva Cold Turkey di Lennon: distorta in abiti Can con tre Afterhours e la voce inconfondibile di Manuel Agnelli.
Laddove il trattamento è davvero radicale, è nella ballata antifranchista Itzar en Semea del duo basco Pantxo e Peio, tramutata in  un delirio corrosivo, elettrico ed elettronico, che, se da un lato congela il trasporto drammatico del brano originale in odore d’Inti Illimani, dall’altro restituisce pienamente, con i suoi suoni inintelligibili, i suoi ritmi fratturati ed inghiotti in gorghi di distorsione alla maniera dei Boredoms, il canto doloroso di una terra da sempre ferita e tormentata.
Ed è ancora la crasi Francesco Currà/Lucio Battisti di Preferirei Piuttosto Gente per Bene Gente per Male, in cui le parole del poeta operaio, tratte dal suo unico disco, Rapsodia Meccanica del ’76 (ode straniante all’alienazione del mondo della fabbrica), declamate da Roberto Bertacchini dei Sinistri, fanno da incipit alla ben nota melodia battistiana, in cui sono ancora i Can ad andare in frantumi contro un muro rumorista, in un ricordo di ciò che era il conflitto tra sociale e privato, di cui l’accostamento per contrasto tra i due è forse da intendere come scontro dialettico simbolico degli anni di piombo (l’impegnato, minoritario, di nicchia vs. il qualunquista, disimpegnato, di successo); spazio della memoria evidentemente caro ad Iriondo: le foto interne del  Illu Ogod Ellat Rhagedia con i tre A Short Apnea (oltre lo stesso Iriondo, Fabio Magistrali e Paolo Cantù) ritratti sul retro di una R4 come l’Aldo Moro cadavere in via Fani, paiono stare lì a confermarlo.
E proprio ai grandi A Short Apnea, Irrintzi s’avvicina, se non solo nella resa finale dei brani, nella concezione di una musica carica di tensioni, che attraverso le molteplici vie della memoria, ricostruisce la storia e le storie, raccogliendo i ricordi di una vita intera restituendoli in forma di suono. Un suono personalissimo, a suo modo unico, tale da giustificare la mobilitazione di ben sei etichette.

 

Alessio Bosco
Alessio Bosco
Alessio Bosco - Suona, studia storia dell'arte, scrive di musica e cinema.

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