All’interno della pur eterogenea discografia degli Xiu Xiu, l’imminente Nina, previsto per il prossimo dicembre e che abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare in anteprima grazie a Graveface Records, risplende come un unicum dalla natura aliena ed inclassificabile. Atto d’amore verso la cantante e pianista Nina Simone, l’album è stato concepito e realizzato in tempi brevissimi. Tale modus operandi è in parte frutto di una precisa scelta estetica: Jamie Stewart era deciso a catturare su nastro l’immediatezza del sentimento che aveva determinato la genesi dell’opera, ispirata da una discussione con l’amico e mentore Michael Gira (a sua volta grande ammiratore dell’artista americana). D’altra parte i mille impegni di Stewart (non ultimo, l’uscita di una nuova raccolta di inediti prevista per Febbraio) imponevano ineluttabilmente una scaletta serrata. L’album si rivela dunque un meraviglioso esempio di convergenza fra necessità e virtù: affidando al collaboratore di lunga data Ches Smith l’onere degli arrangiamenti, Jamie presta la propria voce ad un ensamble avantgarde (composto da sodali di John Zorn, Marc Ribot, Nels Cline, Charlie Haden, Anthony Braxton) che, nell’arco di un sol giorno, registra in presa diretta e al primo take 11 brani.
Ne scaturisce un compendio che determina uno scarto deciso all’interno del percorso evolutivo di Stewart: allontanandosi dalla relativa accessibilità delle ultime prove, il nostro si riaggancia allo stile compositivo fratturato che aveva caratterizzato gli esordi degli Xiu Xiu, seppur rivisto alla luce dell’acquisita maturità. L’introduzione dell’iniziale Don’t Smoke in Bed, nell’accennare appena la melodia originale, sembra preludere a forme vagamente standard jazz. Ma l’illusione è di breve durata, e il brano si trasforma ben presto in una mostruosa caricatura free-form che, insieme ai successivi tre pezzi, costituisce una sorta di lunga improvvisazione sibilante. Più che le ballate pianistiche della Simone, le percussioni ripetitive e i vagiti elettronici di Don’t Explain, la storta melodia di armonica sull’incipit di Wild is the Wind (in cui la distanza dallo stesso Bowie è abissale) ed i carillon fuori sincrono di Where can I go without You riportano alla mente le improvvisazioni radicali e l’aura spettrale dei primi This Heat.
A partire da See Line Woman, tuttavia, le dinamiche mutano completamente: il ritmo torna a reclamare spazio, e i brani si fanno necessariamente più strutturati. In origine la canzone forniva un classico esempio (insieme all’ancor più celebre Sinnerman) di come la Simone amasse reinterpretare la tradizione blues anteguerra, estendendo i traditionals fino a trasformarli in lunghi mantra ipnotici che dal vivo potevano sfiorare i 30 minuti di durata. La versione di Jamie e soci mantiene la medesima natura ferina, spingendo sul ritmo ancestrale della batteria e contrapponendo una chitarra ondivaga alle terroristiche incursioni dei fiati. Just Say I Love Him e The Other Woman sono i brani che si allontanano in minor misura dagli originali, conservando una certa attitudine “standard” che nel resto del disco latita del tutto. Colpisce soprattutto la secondo, lasciata alle sole chitarra e voce: mentre le corde della Halvorson ricalcano la melodia che fu del piano, Stewart rivela una vulnerabilità degna delle migliori torch songs. Seppur in accordo a canoni estetici completamente differenti, anche Four Women e You’d be so Nice si avvicinano ad una certa idea di “tradizione”, se è vero che ripropongono l’originaria concezione di free jazz. Pirate Jenny, fra le migliori prove del lotto, si evolve in una sorta di cabaret dell’orrore: la ritmica serrata della chitarra permette alle percussioni di infuriare libere, mentre Jamie inscena uno psicodramma memore tanto degli intenti di Brecht quanto delle istanze sociali della Simone. Flo Me La chiude in bellezza, emergendo dal caos e – dopo una breve sezione ipnotica, guidata dal ripetitivo riff della chitarra – sprofondando nuovamente in esso.
Seppur di non facile assimilazione, l’album si impone come una delle migliore prove di Stewart fino a questo momento. Per ammissione del musicista stesso, l’opera vuole rappresentare un tributo alla perseveranza e all’integrità artistica (caratteristiche proprie della Simone come anche del leader degli Swans, che dell’intera operazione è indirettamente responsabile). Un percorso catartico al rumor bianco, che attinge all’oscurità primordiale per elevare gli spiriti verso più alte sfere. Una seconda genesi per Stewart ed i suoi Xiu Xiu, che – ne siamo certi – prelude ad una nuova fase altrettanto ricca di meravigliose intuizioni.
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