Semmai un giorno dovessero sorgermi dubbi sull’intensità del legame tra genitori e prole mi ricorderò di questo disco come una grande prova d’amore di una figlia verso il proprio padre. Beh, si, facile a dirsi, soprattutto se il tuo babbo all’anagrafe fa Graham William Nash e soprattutto se ad accompagnarlo per gran parte della sua carriera siano stati tali David Crosby e Stephen Stills nell’acclamatissimo terzetto (poi quartetto con Neil Young). Davvero un successo planetario. Nile Nash non ha la stoffa di Graham, è ovvio, ma è una figlia devota e certosina nel cernere i prestiti pregevoli di amici sicuramente capaci di interpretare quel Songs for beginners che nel 1971 diede vita alla carriera solista del padre. Disco qui riproposto nella sua interezza e con la stessa fregola compulsiva che il naufragio della storia d’amore con Joni Mitchell, oltre una pausa con i CSN, gli avrebbe offerto anche al tempo. Ancora vivo nell’immanente bisogno di trattare temi allora (come adesso) scottanti, quali il disagio sociale, l’antimilitarismo, l’attivismo politico oltre i flussi di coscienza del giovane Nash. Scelta perfetta dunque quella di abbinarvi il colore/calore di assi del panorama folk mondiale confezionando ad arte qualcosa di cui anche il (quasi!) settantenne folker anglo-americano dovrebbe gioire. E così Robin Pecknold (Fleet Foxes) fagocita Be yourself ammantandola con quel suo folk pastorale, marchio di fabbrica ormai indelebile, fintanto che l’ormai onnipresente Will Oldham (Bonnie Prince Billy) si diletta sulle armonie mesoamericane della ballad Simple Man. Il soffice tocco di Military Madness viene invece riproposto da Port O’Brien (Papercuts) mentre Sleepy Sun e The Moore Brothers sono rispettivamente impegnati con la splendida Chicago e Man in the Mirrors. Ed ancora i Vetiver (con o senza Banhart?) ridonano lucentezza alla scrittura quasi perfetta di Nash in Used to be a king e Brendan Benson rilancia l’americana anni ’70 di Better Days con lo stesso taglio secco e deciso dei suoi Recounters. Completano Alela Diane (There’s only one), Mariee Sioux, in coppia con Greg Weeks degli ESPERS (Sleep Song) e la stessa Nile abile a cimentarsi in Wounded Birds e nel finale a cappella di We can change the world, due classiconi. Trame sempreverdi. Una rilettura onesta di un vero capolavoro. Di sicuro, un presente molto più gradevole della solita sciarpa da regalare al babbo per il suo compleanno, a patto che non diventi moda.