Non è certo questa la sede per analizzare esaustivamente il fondamentale apporto di Alan Lomax – benefattore che ha tramandato ai posteri gente come Jelly Roll Morton, Huddie Ledbetter e Muddy Waters, mica scherzi! – alla musica tutta del ‘900. Paradossale per un etno-musicologo, per uno studioso che va a scovare frammenti di antiche culture, avere largamente influenzato la musica contemporanea? Direi proprio di no. Pensate soltanto a questo: quante avanguardie non sono state altro che profonde operazioni di contro-maquillage, maieutica di forme primitive, restituite nella loro originaria filigrana esplosiva. Quanti (veri o presunti) innovatori non fanno altro che operare una sgrossatura di vecchi materiali dai calcari che gli anni e le convenzioni vi avevano depositato sopra? Dove affondano le proprie radici, per fare un esempio, i latrati in libertà di un Captain Beefheart? Questo è lo spirito con il quale il sottoscritto si è approcciato a Whaur the Pig Gaed on the Spree. Una chiave di lettura forse un tantino macchinosa, ma che mi ha permesso di apprezzare questa raccolta di musica popolare scozzese come qualcosa che – seppur lontano nel tempo e nello spazio – continua a tutt’oggi a parlarci. Nell’estate del 1951, il continuo peregrinare di Lomax, legato alla sua attività di antropologo, lo fece approdare in Scozia, complice l’interesse per figure come i folk-singers e operatori culturali, nonché attivisti politici, Ewan MacColl e Hamish Henderson. Impressionato dalla ricchezza della tradizione musicale locale, Lomax ne registrò varie testimonianze fra contadini, pescatori, avventori di taverne, girovaghi, bambini. Whaur the Pig Gaed on the Spree – curato da Alasdair Roberts e frutto della collaborazione fra la Drag City e la Alan Lomax Archive’s Global Jukebox label – si propone di commemorare i sessant’anni di queste registrazioni (che, per la precisione, coprono gli anni dal 1951 al 1957), delle quali le sopracitate persone comuni sono spesso protagoniste. Ne emerge un ampio spettro di emozioni e stati d’animo: dolcezza e dolore, piccole storie e sapori ancestrali, filastrocche, cornamuse festose e brani recitati da crude voci. Si avverte appena, sullo sfondo, la figura dell’intellettuale, discreta intercapedine, silenzioso e amorevole esegeta di un mondo perduto. Un mondo che, quando gliene diamo l’occasione, sa esprimersi fieramente con la propria voce, senza filtri, arrivando dritto al cuore.