Sembra che ci sia già da dover mangiarsi le mani, dato che al momento, nel contesto del tour europeo che Alela Diane affronterà da qui a breve, non è ancora prevista una data italiana. Un gran peccato, perché, dopo il buon successo di To Be Still, il ritorno della songwriter californiana gronda di stile e classe, che meritano assolutamente di essere godute da sotto un palco e non semplicemente da una poltrona e un paio di cuffie. Ritorno, dunque, ma con parecchi cambiamenti, dato che la line up che affronta le undici tracce composte durante il precedente tour è completamente nuova ed annovera, oltre al bassista Jonas Haskins e al batterista Jason Merculief, una coppia di chitarristi che sono rispettivamente padre e marito di Alela, ossia Tom Menig e Tom Bevitori. Sarà che il suonare in famiglia era usuale nell’ambito del country rock (e non si vada con la mente troppo lontano, Cash e Carter sono ancor oggi attualissimi), certo è che l’aver lavorato in tale clima di rilassatezza e benessere è sembrato decisivo per una definitiva conferma del talento dell’artista. Ad impressionare è la generale solidità della scrittura e della tenuta dei pezzi, in delicato equilibrio fra tradizione e aggiornamento del genere. Se, per un verso, gli arrangiamenti riservano il giusto spazio ai topoi del caso, con inserti di steel guitar, piani Rhodes e Hammond di rara limpidezza e strumenti etnici che non vampirizzano mai le canzoni – The Wind -, d’altro canto tutto suona estremamente contemporaneo e comunque ottimamente amalgamato, dalla distesa apertura di To Begin (quasi una Wicked Game meno svenevole), all’intensissima ballata Long Way Down (l’episodio migliore del disco), alle inflessioni southern di Of Many Colours, agli accenni swing di Heartless Highway. Merito dell’estrema levigatezza del risultato va per certo al lavoro assai discreto di Scott Litt – in passato al lavoro con R.E.M., Nirvana e The Replacements – in fase di produzione, estremamente rispettoso del suono naturale della band, ma a svettare su tutto è un utilizzo esemplare della voce, delicatissima nel sottolineare i cambi di registro e lontana anni luce dalla manierata retorica di una Dolores O’Riordan, che pure potrebbe essere l’accostamento più ovvio; al contrario, si rimane affascinati dalla lucentezza di un timbro deciso e di immediata espressività, quasi miracoloso per il modo in cui riesce a cullare ma mai a vezzeggiare l’orecchio. Un disco solare e diretto, che non ricorre ad inutili orpelli per conquistare cuore e mente dell’ascoltatore.