L’epopea di un “giovane uomo” nell’America odierna: non tanto, quest’ultima, un luogo fisico, quanto più una condizione esistenziale precaria e ostile nella quale l’essere umano, giovane ma, per l’appunto, già uomo, cerca di vivere o, quantomeno, di sopravvivere. Sono approssimativamente queste le coordinate narrative nelle quali si muove il quinto lavoro di Anaïs Mitchell, dopo il successo di Hadestown, concept anch’esso e naturale precursore di quest’ultimo.
La tematica ambiziosa e tipicamente americana dell’individuo alla deriva nel Grande Paese si arricchisce, però, del non indifferente dettaglio consistente nel fatto che anche l’America che la Mitchell racconta, per sua stessa dichiarazione, ha perso innocenza e capacità di esser guida, scoprendosi innanzi tutto selvaggia (Wilderland) e sperduta anch’essa.
Coerentemente con tali premesse, anche lo stile della folksinger del Vermont si incanala in una direttrice molto più dimessa, compassata rispetto al passato, fin quando non assume contorni decisamente più severi.
L’entrata della citata Wilderland ne è l’espressione più autentica, con un deciso cadenzare di tamburi appena sfumato da rumori di fondo di violino e flauto e passaggi armonici in stile quasi accordale sottolineati dalle armonie vocali quasi sempre a tre parti (come si riscontra in gran parte del disco): simili titoli di testa probabilmente non sarebbero dispiaciuti ai fratelli Coen (si ricordi il tema di Fargo, un tradizionale riarrangiato da Carter Burwell).
Il racconto si fa più fluido con la successiva title track, con i suoi interventi di organo e chitarra elettrica (oltre ad una coda di trombe) e la voce della Mitchell più distesa nel suo incedere narrativo, con un timbro esile ma assai penetrante e talmente “pop” da sembrare quasi fuori contesto (in realtà è assai funzionale nell’alleggerire l’atmosfera che avrebbe potuto aggravarsi di retorica).
E quando si sfoltisce l’organico arriva l’episodio migliore, la tenera ballata Coming Down, in cui un pianoforte quasi rapsodico (si veda il James Blake più rarefatto) si incrocia con le risorse melodiche più azzeccate del disco, non lontane dal Ryan Adams più ispirato e intimo, fino a risolversi nei colori dei fiati.
Le successive Dyin Day (con tanto di solo di bouzouki) e Venus si stagliano un gradino sotto per intensità emotiva (soprattutto la seconda), mentre la chitarra acustica è decisa protagonista in He Did, insieme ai delicati interventi di elettrica.
Più compassata (ma anche più debole) risulta Annmarie, Sailor si fa invece notare per l’interpretazione vocale davvero notevole (e che la Mitchell abbia una gran voce lo si vede soprattutto dal vivo, in rete girano filmati assai interessanti, anche in solo), nonostante il pezzo consti di due accordi di numero. Assolutamente di rilievo sono poi i dialoghi chitarristici in Shepherd, originata da un racconto scritto dal padre della Mitchell.
Il finale, composto dal dittico di You Are Forgiven e Ships, stempera notevolmente la tensione narrativa (e si avvale di una più marcata connotazione “etnica”) e bilancia adeguatamente la severità quasi “innodica” dell’incipit, chiudendo un ideale cerchio e suggellando il “racconto”.
La Mitchell si conferma dunque, in un ideale panorama new folk, fra le autrici più affascinanti, in un ipotetico trittico con Joanna Newsom (più di una somiglianza vocale sussiste infatti fra le due) e Josephine Foster (che risulta indubbiamente più fuori dagli “schemi”). Manca forse, sotto il profilo melodico, la scintilla che fa il capolavoro, ma l’album muove e tocca le corde giuste. Nota di merito per la registrazione, davvero eccellente.
[box title=”Anaïs Mitchell – Young Man In America (Wilderland, 2012)” color=”#5C0820″]
prodotto da Todd Sickafoose | tutte le canzoni sono di Anaïs Mitchell
Wilderland | Young Man in America | Coming Down | Dyin’ Day| Venus | He Did |Annmarie | Tailor | Shepherd | You Are Forgiven | Ships [/box]