Ai padovani Barranco certo non manca il coraggio. Quintetto padovano da precedenti e differenti esperienze, immersi mani e piedi in un folk a dir poco inusuale al giorno d’oggi, danno alle stampe un disco dall’intrigante e viscerale titolo, non a caso, in 300 copie rivestite in custodia in legno.
In omaggio a questa “scorza” d’altri tempi, la loro musica ha, appunto, radici in una forma canzone popolare che si può ascoltare in nicchie di provincia e che, purtroppo, non ha spazi angusti nell’autoreferenziale indie nostrano.
Imponendosi una disciplina fedele allo strumento acustico a corda in varie declinazioni (mandolino, ukulele, chitarre), il quintetto abbraccia in egual misura ora la musica popolare ora il corale quasi madrigalistico (Le porte di Orlova) ora ballate quasi più classiche dall’ampio respiro (Un inverno), talvolta più trattenute (Da questa parte).
Certamente più vicini ad un approccio che andava per la maggiore una quarantina d’anni fa, nei quali non avrebbero certo sfigurato, piazzandosi quasi a metà strada fra dei Jethro Tull meno esplosivi e uno Juri Camisasca meno eclettico, i Barranco si fanno forti di buone idee di partenza e di liriche interessanti quando riscoprono elementi naturalistici ma scivolano quando accelerano (Un giorno in più non farà male, il finale di Effimera) e incorrono in modelli discutibili quando tentano la carta “combattente” (Milite, che però fortunatamente non sbraca, in due minuti).
Una voce interessante e un insieme strumentale compatto non sono serviti sempre efficacemente da melodie talvolta ondivaghe e non perfettamente a fuoco (il pezzo migliore arriva in fondo ed è un bel colpo d’ala), ma le premesse sono incoraggianti e di buone prospettive.