Quando ascoltai So much more di Brett Dennen mi chiesi che fine avrebbe fatto questo rubizzo ragazzotto dai capelli vermigli. Mi chiesi insomma se il gran bene che si vociferava già su di lui potesse giovargli, anche in futuro, per ripetersi a quei livelli. Una serie di stravaganti coincidenze furono poi sufficienti a farmi intravedere la sua carriera come quella di un sicuro astro nascente della musica folk-pop. Ebbene si, ammetto di essermi cullato molto sulla bolla mediatica creata ad arte attorno a questo giovane songwriter e non faccio segreto di essere stato perfino ammaliato dalla spendibilità del suo “prodotto easy” che rimbalzava ora come sigla di famosi serials ora come opening per mostri sacri come John Mayer. Era il 2006.
Hope for the hopeless è invece il recente lavoro (l’ultimo) di Brett Dennen, pubblicato verso la fine di ottobre 2008 dalla Dualtone e prodotto da J. Alagia. Ricordate J. Alagia? Bene dovreste, dal momento che perfino Dave Matthews band e lo stesso John Mayer, oltre che Ben Lee e Vertical Horizon ne hanno condiviso la sua sala regia e che anche in questa prova dimostra di conoscere tutti i trucchi della ricetta della torta di nonna.
Questo è infatti un disco ben prodotto, ricco e politicamente corretto (direi quasi populista!), talmente tanto da sembrare destinato a dover annoiare, perfino nel titolo. In effetti non è che annoi, ma forse un tantino esagera.
Non parlo di un disco brutto, non potrei, anzi. Pletorico. Esuberante, sovrabbondante forse si, però. Un disco schiavo delle sue premesse. Incatenato dalle più o meno rigorose associazioni che il suo songwriting stimola ogni qualvolta il rubicondo giovine inforca la sua chitarra. Bob Dylan, Jack Johnson e James Taylor, oltre che Ron Sexsmith sono i feticci a cui Brett si aggrappa senza venirne, secondo me, a capo pur possedendo un “core” di razza. Insomma quella che si dice, la sindrome del più bravo della classe, come Brett Dennen ha dimostrato ampiamente di essere.
E così nulla o poco vale che la sua Make You Crazy con il nigeriano Femi Kuti scali le classifiche del circuito radio americano adult-oriented per convincemi del contrario. Nulla o poco vale ancora ascoltare i solinghi episodi di redenzione (Ain’t gonna lose you ed Heaven sono comunque capolavori) per ridarmi quella sensazione di songwriting maturo e dalle coordinate gustose saggiata con i lavori precedenti. Nulla vale ridacchiare alle spruzzate surf al gusto tropical o cercare di raschiarne la patina superficiale magari leggendone qualche numero blues, anche scolorito perché no?
No. Non sono convintissimo.
Credo tuttavia all’onestà intellettuale di Dennen e non me la sento di processarne le intenzioni. Probabilmente cedere al vezzo compromissorio di volersi porre dalle parti dell’ascoltatore, trasformando il suo folk-intimista in pop-soul dalle soluzioni scontate gli è stato più congeniale che continuare a dormire tra le lenzuola di Jason Mraz ed Amos Lee piuttosto che guardare il sole dal terrazzo di Matt Costa e Joe Purdy. Bene che dire: se sta bene a lui, non può che star bene anche a me. Auguri, quindi, Brett! Alla prossima!