Silent City è cultura musicale. Uno di quegli esperimenti che nella misura giusta possono cambiarti la vita. Purtroppo, però, non amo particolarmente l’eccessivo razionalismo e sono convintissimo, oggi più che mai, che la musica viva feconda senza bisogno di attribuzioni psico-sociologiche che rischino di rattrappire oltremodo il miracolo dell’ascolto. Debita premessa approcciandomi a queste dodici tracce. Più che un concept album infatti, quello di Brian Harnetty, musicista sperimentale, studioso ed attivista del Fossil Fools art collective, è un flusso profondo dell’inconscio strutturato su una quantità di materiale sonoro riproposto nella sua crudezza. Una realtà duplice che si snoda su due piani semiotici. Da un lato il vasto e proficuo universo del country-folk americano qui centellinato attraverso la sua dimensione atavica “Appalachiana” (di cui Harnetty è studioso) e reso in modo immanente attraverso la voce di Bonnie Prince Billy, dall’altro il motu animae tratteggiato mediante la raccolta e l’esposizione a suoni ora densi, ancora rarefatti, che c’inoltrerebbero, qualora fossimo seduti sulla vetta del monte Mitchell, in quello spazio recondito e subconscio della nostra esistenza.
Dialoghi rubati alla normalità che vengono cesellati ciclicamente da ballate dolci, eteree, sognanti (Sleeping in the drive way) e da interludi strumentali che riportano perfettamente in bilico un quadro ambient-folk già di per sé abbastanza vacillante. Di fondo a tutte le tracce, ad agire come un pedigree per trame strumentali comunque troppo esili per essere da sole capaci a tributare questo disco come un capolavoro, un loopy di accordion monolitico, dolente, sfinente. Come se un occhio “altro”, scrutasse il mondo a se stante senza essere visto, qualcosa che metafisicamente vive senza la coscienza della realtà che osserva ma di cui se ne sente il respiro. Un climax che per certi versi rammenta le atmosfere lynchiane care a Twin Peaks.
Scorci folkish di piano, fiati, banjo, mesti di quella mestizia fine, avvolgente (And Under The Winesap Tree, Some Glad day) in cui la la voce di Oldham, Bonnie Prince Billy, ci regala momenti rapsodici con picchi che, astraendo e non poco, citano la strasognante Bjork di “Bachelorette” ma che sono l’unica dimensione terrena di un lavoro troppo ermetico rispetto all’oggetto musica. In effetti non riesco bene a decifrare questo senso di inadeguatezza ma conosco bene la concretezza di qualcosa che “resta” dentro capace di superare di gran lunga tutte le astrazioni intellettuali e se questo non accade, vorrà pur dire qualcosa.