A distanza di qualche mese dalla data di pubblicazione negli Stati Uniti, Wild Go, ultima fatica dei Dark Dark Dark, viene finalmente alla luce anche nel vecchio continente. Non avrebbe potuto essere comunque, vista la notevole attenzione da parte dell’Europa nei confronti di un sound – come quello dei Mumford and Sons, ad esempio – capace di scalare le più ordinarie classifiche di vendita. Detto ciò, il gruppo di Minneapolis, non ha niente da invidiare alla band indie folk di origine londinese. Celebrate, la quarta traccia di Wild Go, insieme alle altre concubine, non abbocca agli sviluppi pop che intraprende la musica dei Mumford and Sons; il suo ritmo giostresco, infatti, ne palesa l’intento parodistico, certamente non comune alla musica popolare odierna. Detto ciò, ora possiamo evitare di nominare ulteriormente il gruppo di cui sopra ai fini di un qualsiasi raffronto. Wild Go è ottimo in ogni sua sfumatura, i testi sono ineccepibilmente scritti, le melodie orecchiabili ma mai prevedibili e le voci, quelle di Nona Marie Invie e Marshall LaCount, sono tanto evocative quanto indimenticabili (soprattutto la prima, ormai consolidata nel timbro). È vero, ci sono tante “facce” in questo disco, per fortuna, si tratta soltanto di espressioni fisiognomiche temporanee: lo sguardo superbo dei Fleet Foxes, il ghigno rabbioso dei Decemberists e gli occhi lucidi e gentilmente patriottici dei primi Noah and The Whale. Chiamare in giudizio non fa mai male, soprattutto se gli accostamenti avvengono con artisti la cui bravura è difficile da mettere in discussione. I Dark Dark Dark hanno un solo grande problema: tutti i nomi già indicati ci ricordano che in campo musicale, tutto ciò che arriva dopo – seppur di ottima fattura – viene (ingiustamente) tacciato di essere un clone o un blando tentativo di imitazione. Come deviare questo piccolo intoppo? Se i Gogol Bordello ci hanno insegnato che la fisarmonica, nell’est europeo, serve soprattutto per far ballare, i Dark Dark Dark – americani – la usano per dire che le loro ballate folk hanno voglia di sporcarsi con questi ritmi vagabondi, moderando così l’essenza campanilistica del disco, tipica di chi si riconosce in questo genere: «Ho viaggiato e girato per tanto tempo – ed è stato fantastico – ma ora ho questo conflitto interiore tra l’avere una vita da nomade e il bisogno di una dimora fissa», afferma la voce del gruppo, Nona Marie Invie. Risultato? Questo è un gruppo, (quasi) senza precedenti in America – la patria dell’amor di patria per antonomasia. Non troverete mai in un disco di americana, jazz del New Orleans, il senso di Right Path, dove per “giusta strada” s’intende quella che porta ai confini del mondo, quegli stessi confini che spingono ancora a viaggiare e cercare nuovi spunti. Se poi pensiamo che i Dark Dark Dark sono sei persone, sei diverse menti, questo può essere una valida spiegazione al fatto che il figlio musicale del loro comune lavoro, conservi tratti somatici fra loro distanti. Non troverete mai l’attacco squisitamente radiofonico della ballata Say The Word, né le atmosfere cinematografiche della title-track, durante la quale i brividi sono assicurati, non li troverete mai in un contesto pregno di una simile maturità musicale. Questo senso della differenza è dato soprattutto dai testi, enigmatici e spesso incomprensibili di primo acchito, ma non per questo inaccessibili. In Your Dreams, ad esempio, è insistente nella melodia e perfettamente eleggibile a tormentone indie, mentre il primo singolo Daydreaming – come dichiara la stessa Nona Marie Invie – è una lettera di risposta all’altrettanto valida Wild Goose Chase di Elephant Micah. Ecco, forse Wild Go è proprio questo: il racconto epistolare in musica del viaggio mai fatto, dove il lettore – il destinatario implicito – non deve far altro che immaginare i luoghi remoti della propria infanzia o quelli legati ad un amore perduto, abbandonandosi completamente a quelle astruse parole che fortunatamente non rispondono ad alcuna regola geografica.