Nonostante l’esperienza ci fornisca anche coordinate diametralmente opposte a quello che sto per dire, sono assolutamente convinto che la fortuna di certi generi musicali passi necessariamente attraverso logiche ben precise e che in quelle di un certo tipo di “americana” sia, senza ombra di dubbio, fondamentale la personalità del frontman. Giunti al terzo disco per Fargo/Naive, i Deer Tick, da Providence nel Rhode Island, non mi aiutano comunque a fugare questa asserzione. Sia perché non trovo rifugio nella mistione turlupinatrice di John McCauley, continuamente sospeso tra il graffiante Axl Rose, il sofferto Layne Staley e l’arroventato Bob Dylan, sia e soprattutto perché è mostruosamente grigio il tenore delle sue liriche laddove queste indagano l’introspezione umana. La vita, la morte, la fede, l’amore sono terreni comunque difficili da praticare riuscendo ad essere credibili. Vero hic et nunc! Eppure, da tempo non ascoltavo un disco così bello di southern. The Black Dirt Session è un ottimo disco. E se il precedente Born on a flag day era stato così abile ad imbastire una liason perfetta tra i luoghi dell’anima e gli orizzonti fisici, queste “sporche sessioni” continuano a non sbandare sulla stessa scia, declinando la terza persona del verbo rock con un impasto a base seventies e frequenti deja vù folk-blues. Il legnoso del double bass ed una certa ruvidezza dei suoni sono poi il lievito di preziose trottate come Mange e Choir of Angel, che puntano dritto alle belle cose dei Creedence Clearwater Revival ancor prima che ai The Black Crowes ed ai Lynyrd Skynyrd. Rapsodici candori à la Widespread Panic e sofisticato songwriting, gravido tributo ad un Neil Young più riflessivo, informano di se invece tracce come Piece by piece, frame by frame e When she comes. Devastanti, inoltre, gli episodi intimisti affidati ai copiosi accordi di piano di Goodbye, Dear Friend e Christ Jesus od alle schitarrate dylaniane di The Sad Sun e Twenty Miles, secondo archetipi dignitari che potrebbero imputarsi a Gov’t Mule e Storyville. Immaginarsi con i capelli al vento sulla propria cabrio mentre si sfreccia sulla Route 66 fieri di essere americani, potrebbe comunque darci un’idea abbastanza verosimile.