Sono dovuti passare ben quattro anni da Bad Medicine – debutto su 7” che rivelò al pubblico il suo formidabile talento – ma finalmente la cantautrice britannica Liz Green ha pronto l’esordio sulla lunga distanza. Nel più puro stile DIY l’autrice ha registrato le sue prime composizioni in camera da letto, con l’aiuto di un’apparecchiatura a dir poco rudimentale. Nonostante le limitazioni tecniche, la pura forza della sua proposta l’ha portata a farsi conoscere fra i talenti emergenti al prestigioso festival di Glastonbury, nel 2007. Sono seguiti apprezzamenti della critica – entusiasta di fronte a quella miscela amatoriale di jazz, blues delle origini e folk rurale – ingombranti paragoni con mostri sacri quali Judy Garland, Billie Holiday e Karen Dalton, ed il succitato singolo. Un lungo periodo di silenzio ha in seguito distolto l’attenzione dei media dalla promettente cantautrice, alimentando più di una diceria circa il tanto rimandato primo disco. “Non stavo facendo alcun progresso”, ha rivelato la Green al proposito. “Dopo essermi esibita dal vivo non riuscivo ad abituarmi all’asetticità dello studio, ero arrivata a temere i giorni in cui avrei dovuto registrare. A tre anni dall’inizio dei lavori non ero avanzata di un passo, e sono sicura che tutti i miei collaboratori fossero frustrati quanto me. Avevo bisogno di qualcuno che mi dicesse ‘basta, va bene così!’, ed è esattamente ciò che ha fatto Liam”. La situazione, in effetti, ha subito una svolta fortuita quando in cabina di regia si è seduto Liam Watson, già produttore di Elephant dei White Stripes. “Liam è stato in grado di far suonare il disco esattamente come lo immaginavo nella mia testa”, prosegue la Green. “Ho pensato: che cazzo, finalmente mi procurerò la sezione di fiati che ho sempre desiderato!”. Gli arrangiamenti studiati assieme a Watson evocano tanto Kurt Weill quanto il jazz di New Orleans. Indicative da questo punto di vista le nuove versioni di Bad Medicine e French Singer, o il recente singolo Displacement Song. Ma come può essere che una ragazza formatasi musicalmente nel decennio del Brit Pop attinga tanto facilmente ad un’eredità musicale così lontana dalla sua? “Ho divorato il punk e la new wave degli anni ’80, assimilato i ’70 di Bowie e saccheggiato la collezione di Motown e Merseybeat di mio padre. Cosa potevo fare dopo se non tornare indietro? Musical, gospel, blues, country. Il cabaret di Weimar fra le due guerre. Johnny Cash, Dolly Parton, Son House, Blind Willie McTell. Poi ho cominciato a scoprire alcune perle dimenticate, field recordings impressi su nastro nelle situazioni più improbabili. Ognuna di esse racchiude l’essenza di un’epoca che non esiste più, a cui sento di appartenere intimamente”. Spiegando il titolo dell’album la Green ha dichiarato: “Più tempo serviva per portare a termine l’opera, più mi sembrava che il titolo calzasse. Devozione significa amore e frustrazione, speranza e disperazione, esaurimento e felicità. Senza un pizzico di devozione cieca non ce l’avrei mai fatta”. O, Devotion! Sarà pubblicato il 14 di Novembre su etichetta Play It Again Sam.
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Tracklist:
01 Hey Joe
02 Midnight Blues
03 Displacement Song
04 Luis
05 Bad Medicine
06 French Singer
07 Rag & Bone
08 The Quietus
09 Ostrich Song
10 Gallows