Generalmente Londra non è la città del blues, almeno non quanto le città baciate dal fiume dei misteri Mississippi. Ma è proprio sotto al cielo ingrigito della capitale Britannica che muove i suoi primi passi Duke Garwood. Un musicista sensibile ai grandi del passato come Bo Diddley o Luther Allison, si è inserito fra coloro che il Blues lo vivono e interpretano ai giorni d’oggi. Questo significa rivisitare un pezzo della storia mondiale della musica. C’è chi lo fa sfruttando doti tecniche chitarristiche e vocali come Joe Bonamassa, chi sfruttando doti fisiche da bello e dannato come John Mayer, rimanendo sempre fedeli al registro della beata scala pentatonica minore. Questo tipo di visione è prettamente classica, più che reinterpretazione è una “cavalcata con stile” di un onda nata nei primissimi anni del novecento e questo, non è il modus operandi di Duke Garwood.
Il suo ultimo capitolo, il secondo per l’esattezza, Dreamboatsafari, mette in luce la personale visione del mondo sonoro a lui più caro. Il blues di Duke è innovazione, è staccarsi dai legacci impolverati e partorire una nuova prospettiva. Le ambientazione sono oscure e ruvide, allo stesso tempo ritmiche e coinvolgenti, Gods in my shoes, è un dolcissimo carosello di slide blues in uno spaccato cantautoriale alla Nick Drake. In Gold Watch si inizia a scorgere l’aspetto rivoluzionario di cui parlavo prima, un loop ipnotico di strumenti sovrapposti e fuori sincrono, che portano dritti nelle braccia di Space Trucker Lady dove l’incipit sembra un intro rubato ai Doors ai tempi di The end. Giungendo a Summer Gold , con il desiderio di afferrare il vero marchio di Garwood fin qui ancora troppo sfumato, si ha la sensazione di essere arrivati a destinazione, di aver finalmente incorniciato il vero intento di questo musicista inglese. Il pezzo è una fusione folk blues, che sa di confessione, una dolce riflessione che sottolinea una vena compositiva ben irrorata.
Non mancano i fraseggi d’avanguardia così come non mancano quelli più classici. Più proseguo nell’ascolto e più colgo una vicinanza impressionante con Mark Lanegan, ascoltare Wine Blood per confondervi con certezza. Tapestry of Mars offre, in aggiunta, un tocco di acid jazz che va a sommarsi alle molteplici sfaccettature fin qui eseguite, trascinando Dreamboatsafari in un limbo inclassificabile o meglio “inetichettabile”. Si chiude con Larry un pezzo che sembra uscire da una jam session blues, jazz e funky, una tale confusione sonora che rischia d’infastidire i nervi più sensibili. Un disco che non va valutato nell’insieme, impossibile giudicare o apprezzare la totalità del lavoro, questo perché le ambientazioni sfiorate sono davvero tante, sicuramente da appoggiare l’intento di Duke di staccarsi dal cordone ombelicale stravolgendo i registri standard del blues.
Rimane un pizzico d’incertezza alla conclusione di questo disco, forse perché non ho colto pienamente il fine di questo progetto o semplicemente perché si è perso un po’ qua e la fra le mille volontà di Garwood.