Non v’è modo di capire quale sia la ricetta migliore per far delle cose meglio di altre quando queste, pur preparate con la certosina ed esatta perequazione degli ingredienti, risultino al gusto più buone. Probabilmente la qualità degli ingredienti conta e non poco, non foss’anche perché ne ho conferma ogni qualvolta assaggio un pomodoro del feudo dei miei nonni senza confonderlo con un pezzo di cartone. Nel caso di Paupers Field, retroguardia country-rock del belloccio Dylan LeBlanc notabile ventenne con esordio importante (paternità Kenny, gettonatissimo tournista dei Muscle Shoals Sound Studios) , non so quanto c’entri il feudo dei nonni, ma credo parecchio, visto che anche il suo disco non sa di cartone. Pregiato ed elegante come monili antichi che impreziosiscono, sempreverdi, degli splendidi decolté. Un po’ come lo continuerebbero a fare Peter Case e Steve Earle se avessero quel bel faccino che Dylan mette in bella mostra, chitarroccio in mano, allorquando seguendo un certo processo derivativo, armeggia con le stesse nuances con cui il padre ha armeggiato. Probabilmente mentre lui, appena cosciente, tentava d’investigare che suoni fossero quelli che gli ricordavano la sua terra così da vicino. Magari, se fosse già nato, anche con una pacca sulle spalle affettuosamente elargitagli dal vate Bob (Dylan, ndr) che in quegli Studios ha registrato ed a cui, il giovane Le Blanc, credo sia evidente, non debba solo il nome di battesimo! Dylan non si concede nessuna sbavatura e confeziona così un album denso di significati e con un approccio molto maturo. Low è evocativa del trio delle meraviglie CSN, supponente mentre anticipa If time was for wasting che ci dirige verso il Neil Young che poi quel trio ha trasformato in quartetto, e che meraviglie! If The Creek don’t rise, Tuesday night rain e Ain’t too good at losing hanno in se lo svenevole magnetico ed avvolgente dei Cardinals di Ryan Adams, lo stesso che in viaggio verso il nulla urleresti a squarciagola con il cuore gonfio di amore. Emma Hartley (una spanna sopra il resto), 5th Avenue Bar, Coyote Creek sono invece la faccia estroversa e duttile del disco, che senza miscredere le origini, si riversa al mondo con lo stesso fluido che potrebbe avere Johnny Cash riletto da Adam Green. Sliding guitars, banjo appalachiani, melodie eterne. Tutto rigorosamente di qualità, come i pomodori dei nonni.