Ricordo ancora le recensioni non proprio edificanti che certa stampa musicale riservava agli Earth oltre un decennio fa. Ben poco considerato nella sua veste di musicista, Dylan Carlson è rimasto a lungo legato alla cronaca nera del rock: fu a suo tempo intimo amico di Kurt Cobain, nonché proprietario dell’arma con cui la star pose fine alle proprie pene. Di conseguenza, quando alla metà dei ’90 il gruppo entrò in ibernazione a causa dei problemi del leader con l’eroina, nessuno avrebbe scommesso un centesimo su di un possibile ritorno. Nel frattempo però sono saliti alla ribalta i Sunn O)))), che al narcolettico doom dei primi Earth devono praticamente tutto: il metal è diventato un affare politically correct anche per i segaioli indie-rock, e Carlson è stato magicamente riabilitato agli occhi della critica. Un nuovo contratto discografico con la Southern Lord, etichetta gestita da Greg Anderson degli stessi Sunn O)))), ha permesso al nostro eroe di tornare sulle scene a metà dello scorso decennio e di vivere una seconda giovinezza artistica. Spiazzando ogni aspettativa, il chitarrista di Seattle non ha capitalizzato la tardiva celebrità, ripudiando il sound degli esordi proprio quando il pubblico sembrava maggiormente ricettivo nei suoi confronti. Sebbene mantenga alcuni legami con il passato (in primis la caratteristica lentezza e ripetitività delle trame), il nuovo corso degli Earth si contraddistingue per una rilettura sui generis del patrimonio rurale statunitense. Così come fecero Hex, or Printing in the Infernal Method (2005) e The Bees Made Honey in the Lion’s Skull (2008), Angels of Darkness, Demons of Light 1 (il secondo capitolo dell’opera è atteso per inizio 2012) recupera la tradizione folk, country-western e blues in una prospettiva lisergica, crepuscolare e – verrebbe da dire – stoicamente apocalittica. Certi umori southern gothic sono mitigati da una pacatezza di scuola post-rock, mentre il tragitto verso il selvaggio West viene percorso in slow-motion cinematografica. La tranquillità che traspare dai solchi dell’album, tuttavia, sa quasi di rassegnazione. I toni arrendevoli sembrano determinati dalla consapevolezza di una fine ineluttabile. Un romanzo di Cormac McCarthy, trasposto in musica, suonerebbe pressapoco così. Cinque i brani presenti in scaletta – il più breve dei quali misura 7 minuti e 30 – e non una singola parola. Il twang saturo della chitarra di Carlson, incredibilmente misurata nelle sue evoluzioni semi-improvvisate, imperversa ovunque. Il violoncello dell’ospite Lori Goldston (già con Nirvana, David Byrne, Black Cat Orchestra, Laura Veirs) aggiunge fascino alla brumosa miscela musicale del gruppo, avvicinandola in alcuni passaggi alle Ocean Songs di Dirty Threeiana memoria. L’unità stilistica è tanto rigorosa da rendere praticamente impossibile un’analisi delle singole tracce. Poco male del resto: questa è muzak per grandi spazi, un flusso continuo di note da cui lasciarsi sopraffare in stato di semi-incoscienza. Oggi come ieri, qualcosa in cui perdersi.