Tra le pieghe di quel vitale metissage tra folk anglosassone, attitudini apocalittiche e un’infernale ossessività circense la ricerca sonora dei Faun Fables ha sfiorato più di un punto di contatto con l’odissea pagana di Paul Giovanni composta nei primi settanta per il film più noto di Robin Hardy, scritto dal grande Anthony Shaffer; la forza cinecentrica (in termini anche di circolarità e movimento) e peculiarmente “inglese” della sfortunata partitura ideata per The Wicker Man ricorda molto da vicino le suggestioni più evidenti che hanno attraversato la discografia della coppia McCarthy / Frykdahl dal 2001 sino ad oggi, identificando un ideale territorio comune tra un episodio isolato ed eccentrico della storia musicale degli anni ’70 e una band che dell’eccentricità, intesa come capacità di distanziarsi da un centro di influenze ben delineate, ha fatto la propria strategia compositiva. Un insieme di fattori che ha concentrato in un’unica esperienza la fascinazione degli Sleepytime Gorilla Museum di Frykdahl per alcune sonorità Europee e le esperienze liminali dei viaggi circensi, già sottoposte per ragioni strutturali all’incertezza del rito di passaggio, con una propensione maggiore per le architetture sonore della tradizione popolare Inglese. Fa sorridere, in questo senso, leggere da parte di ascoltatori improvvisati dell’ultima ora (oppure, ascoltatori occasionali che improvvisano un labile impianto critico) di radici ben piantate nelle tradizioni meticce dell’Europa Orientale, quando il lavoro più marcatamente legato a quel folklore musicale è proprio quest’ultimo Light of a Vaster Dark, cesura netta nel percorso dei coniugi McCarty / Frykdahl tanto da rappresentare il primo abbandono deciso di tutte le declinazioni Inglesi (dal folk rock anni ’70 ad alcune derive più sperimentali) che hanno caratterizzato la spinta centripeta del loro suono. Si dissolvono allora quelle tracce che facevano pensare per certi versi ad una rielaborazione delle invenzioni oscure e rituali degli Art Bears, trama ben precisa che passava per le forme più sognanti e sospese del songwriting “Americano” di Linda Perhacs nel lavoro più oscuro dei Fables, il controverso Family Album, rito terribile scritto (letteralmente) sotto possessione. Light of a Vaster Dark rovista nel background di Frykdhal, decisamente tenuto a bada nei precedenti lavori dei Fables, portando alla luce quel suono di transizione che emergeva in modo minore nell’oscillazione spettrale del songtelling ideato dal duo. Ed è proprio sul piano della narrazione che l’America si fa sentire, in questa capacità di far convivere il paesaggio sonoro impressionista di tradizioni Europee distanti ma comuni con le radici fondanti dello spirito Americano, citando esplicitamente come fonti di ispirazione le opere di Willa Cather e Laura Elizabeth Ingalls Wilder e delineando un percorso visionario sulla fondazione di uno stato a partire dal concetto di maternità, asse spinale dell’ultimo lavoro dei Fables. Si tratta ovviamente di una maternità complessa, controversa, apparentemente svuotata da quella seduzione oscura che rendeva il suono del combo assolutamente tipico, nella sua non tipicità, e che con Family Album disegnava un mondo senza figli, una terra dei morti dove i bambini sussurravano storie al mondo, al di là della soglia del visibile. Light of a Vaster Dark non abbandona certamente la controversa ricerca esoterica liquidata quasi sempre con imbarazzo e aggettivi inadeguati come “strano” o “folle”, basta ascoltare con attenzione il verseggiare di Dawn McCarthy che “scansiona” le parole con una tecnica tribale, vicina alle eruzioni rituali dei mantra pagani, intenta a seguire le fratture del ritmo invece delle suture melodiche, ossessivamente impegnata a descrivere anche con le parole il dissidio tra luce e oscurità come un’irrisolta congiunzione di opposti: “Daylight had lessened and lessened some more/ Till dark became our country and sunset the door“. Nella radicale revisione strumentale dell’universo Faun Fables, Light of a Vaster Dark, sospeso tra bozzetti di deviante bellezza casalinga (Housekeeper) episodi più strutturati con le progressioni armoniche lievemente radicate al loro recente passato (Parade) o allo standard minimale e ossessivo della McCarthy (la bellissima Sweeping Spell), introduce la strumentazione “danzante” di una tradizione apparentemente più luminosa, cercando le radici del paese di appartenenza nei confini di una geografia indescrivibile; una ritualità che esplode con un impatto superficialmente minore rispetto alla violenza interiore degli episodi precedenti, ma che conferma la ricerca vitale di un duo di musicisti che non ha abdicato le radici della tradizione alla resa depressiva del racconto contemporaneo.