domenica, Dicembre 22, 2024

Giant Sand – Blurry Blue Mountain: la recensione

Il 2010 segna un quarto di secolo per il progetto Giant Sand e la Fire Records celebra l’evento con l’iniziale ristampa dell’intero catalogo, a partire dall’esordio del 1985 Valley of Rain, con in aggiunta i lavori solisti di Howe Gelb e i due side-project Arizona Amp And The Alternator e The Band of Blacky Ranchette (a quanto pare niente riedizione per il meraviglioso Slush, pubblicato a nome OP8 nel 1997). Non solo. Il lungo viaggio nei territori di quello che più volte è stato ribattezzato “alternative country” segna un’ulteriore tappa con l’uscita congiunta del nuovo Blurry Blue Mountain, a due anni dal malinconico Provisions. A proposito del suo gruppo Gelb afferma ormai da tempo: “Giant Sand is a mood” e infatti il mood rimane per lo più sempre lo stesso che abbiamo imparato a conoscere, questo intruglio di rock desertico, bluesy ballads, tessiture country e rincorse jazz.

Questa volta l’album non si avvale di collaborazioni esterne d’eccezione, ma riconferma l’assetto regolare della band mezza americana mezza scandinava puntando a un approccio minimale volto a rispecchiare il sound distintivo della band. Niente di nuovo sotto il sole, parrebbe, ma lungi dalla maniera, Gelb scrive un capitolo che riesce ancora una volta ad incantare. Registrato in concentrate sessioni di lavoro, il disco è stato concepito in una sorta di dormiveglia in studio, riflesso nell’atmosfera per lo più pacata e melodica delle canzoni, che mirano a un effetto offuscato, blurry per l’appunto.

I momenti più febbricitanti sono isolati dalla macchia: la riproposizione un po’ ridondante di Thin Line Man, qui dimezzata nei tempi, ma sempre abrasiva come nel lontano 1986 di Ballad of a Thin Line Man e Better Man Than Me, autentica perla di classic rock dal finale dinamitico. Ma il cuore dell’album pulsa in altri luoghi, probabilmente dietro al pianoforte di una buia bettola (la waitsiana Chunk of Coal, Lucky Star Love, in duetto con Lonna Kelley), in portici sgretolati, stanze d’hotel su cui incombono atmosfere pre-notturne (The Last OneNo Tellin’).

Lo storyelling di Gelb germoglia tra un pezzo e l’altro richiamando ora Dylan, ora Cash, dando la confortante sensazione di seguire una strada sicura, navigata. Anche i divertissements country di Brand New Swamp Thing e Spell Bound contribuiscono al sapore rilassato e appagato del disco, il cui centro ideale è forse Monk’s Mountain, con i suoi sette minuti di pacata circolarità, sostenuta dai mormorii trasognati di Gelb. Il disco si chiude con il piano incantevole di Love A Loser, ancora in duetto con Lonna, e la sensazione è che da offuscati i sensi stiano virando verso un dolce intorpidire.

Gli amatori della band avranno di che gioire e squadernare in clima di ristampa filologica e autocelebrazione. Per tutti un ulteriore saggio della bellezza decadente dell’immaginario di Gelb.

Giuseppe Zevolli
Giuseppe Zevolli
Nato a Bergamo, Giuseppe si trasferisce a Roma, dove inizia a scrivere di musica per Indie-Eye. Vive a Londra dove si divide tra giornalismo ed accademia.

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