Per farsi un minimo d’idea di questo disco e dei suoi artefici, è necessario spendere due parole su come è nato. C’è la crisi e non ci sono soldi (per nessuno)? Semplicemente ne chiedi un pochino a tutti, ai tuoi fan in primis, realizzando il cosiddetto “crowdfunding”.
In tal modo, attraverso Kickstarter, l’iniziativa battezzata, manco a dirlo, You Should Coproduce, veniva avviata pochi mesi or sono: dietro la corresponsione di denaro, i “coproduttori” popolari sarebbero stati premiati con premi a dir poco stravaganti, se non paradossali, qualora fossero stati particolarmente generosi. Si andava, addirittura, dall’esecuzione ad personam di un concerto classico diretto da Enrico Gabrielli a Villa Borghese, alla reincisione integrale, ad esempio, di Graceland di Paul Simon.
Al di là della goliardia, il progetto non poteva non suscitare simpatia. Risultato? Oltre settemila dollari raggranellati in un nulla e la partenza era assicurata, con due pezzi da novanta quali, per l’appunto, Gabrielli alla produzione artistica e Tommaso Colliva in regia.
Un altro aspetto fondamentale, per il quale il gruppo di certo non passa inosservato, è il colore, tanto presente “fisicamente”, dato che i tre (Monique Mizrahi, Paola Mirabella e Federico Camici) non esitano a dipingersi il volto e ad ornare il palco di boa e fiori variopinti durante gli spettacoli, quanto metaforicamente, poiché la varietà di colori e timbri è senz’altro l’arma espressiva principale nella loro musica.
Si badi, però, che quanto propone l’eclettico trio è ben lungi dall’essere una “fricchettonata” anacronistica, poiché si fa forte di una tecnica esecutiva notevole e di un caleidoscopio di idee comunque ben orchestrate ed indirizzate.
Già il singolo di lancio To the Earth Core, in due minuti scarsi, ne contiene parecchie: riff-chiave di charango (o, comunque, di altre “corde piccole”), intrecci vocali e andamento puntato dal contrabbasso, successivamente ripreso in East Village, che poi si scatena su ritmi quasi messicani.
Al Messico fa da contraltare un grottesco Brasile dai risvolti quasi beefheartiani di Elastic Stares, la cui articolata architettura è impreziosita dai disegni di flauto e clarinetto di Gabrielli, mentre l’auspicabile secondo singolo Where D’Ya Live You? vede incontrarsi i suoi tipici organi à la Calibro con un tessuto autenticamente hip hop, con tanto di stacco di batteria che “cita” addirittura Crazy In Love.
Allo stesso modo, uno stornello in dialetto catanese (Cajaffari) non trova difficoltà ad accostarsi a morbidezze caraibiche (Swimming Underwater) o a un’improbabile disco teutonica (Eine Kalte Geschichte).
In tale policromia da dare gioia agli occhi quasi quanto alle orecchie, trovano però spazio anche momenti di psichedelia dal forte sapore impressionista, ora rilassata (Canopy Dream), ora singolarmente più cupa (la chiusa finale), a confermare la pluridirezionalità del disco e a scacciare il sospetto di “carineria” giusto per accattivarsi le simpatie dell’ascoltatore; e anche tUnE-yArDs, che pure sulla carta risulterebbe affine ai nostri, è un modello tenuto a debita distanza.
Disco breve, denso senza mai disperdersi, spontaneo ma con squarci genialoidi, You Should Reproduce conferma quanto di buono la band aveva già mostrato nei lavori precedenti. Ha il merito di farsi forte di un produttore che, innanzi tutto, è musicista a 360°, accorto tanto nel “dirigere” il lavoro quanto nel dosare i propri interventi (Gabrielli, tutto sommato, suona poco e quando lo fa non è certo per marcare il territorio), e di un ingegnere del suono che ha reso al meglio la gamma timbrica nelle corde del gruppo, connotandola, di suo, con una batteria dal suono vagamente albiniano che aggiunge straordinaria compattezza al sound generale.
In tour a breve, fortemente consigliati.