Nel clima di isolamento notturno che solo una villa sperduta nelle campagne italiane può garantire, mentre era inchiodato al letto dalla polmonite, l’ex-Bad–Seeds-ora-pistolero-solitario Hugo Race ha partorito un album davvero notevole in cui luce e tenebra, tentazioni infernali e anelito verso l’infinito, convivono in perfetta armonia. L’atmosfera mortifera che spira da gran parte della composizioni è bilanciata da una sorta di fatalismo (da qui il titolo Fatalists) che sconfina nell’ascesi e nella beatitudine. Scrutare l’abisso, immergersi fino al collo nella morte è il primo passo per superare il terrore dell’ineluttabile ed abbracciare una nuova luminosa esistenza. Questo sembra suggerirci l’alternanza fra strofe contratte e repentine aperture angeliche di cui vive Call Her Name, magistrale esempio di folk post-psichedelico à la Nick Drake screziato da bordoni elettronici. Le declinazioni più oscure della tradizione popolare nordamericana costituiscono ancora una volta un canovaccio su cui tessere riflessioni universali, valide in ogni luogo e in ogni tempo perchè irrimediabilmente connesse alla natura dell’animo umano. Indicativa da questo punto di vista la ripresa della tradizionale In the Pines, qui etereo acquerello abbozzato nell’aria con l’ausilio di poche pennellate, in equilibrio precario fra timidi archi e la voce sussurrata di Race. Una versione che non solo rende giustizia a quella di Leadbelly, ma riesce perfino a non sfigurare di fronte alla fin troppo celebre e intimidatoria interpretazione che ne diede Cobain in occasione dell’Unplugged. Il western Serpent Egg e l’oscura ballata Night Vision si rifanno a certe sonorità sperimentate da Race con i Bad Seeds nei primi anni ’90, mentre il riferimento più calzante per Wake Up sembrano le tetre canzoni di amore e odio scaturite dalla penna di Leonard Cohen. Altrove viene sviscerata la forma rock nelle sue componenti più classiche, dal sanguigno blues di Slow Fry fino alla quasi Springsteeniana Zeroes. Ogni brano dell’ultima prova di Race è un piccolo capolavoro che trova una propria collocazione nel disegno complessivo di cui fa parte. Ci si può perdere fra violini estatici, sepolcrali acustiche e spettrali effetti tremolo mentre Hugo tira il fiato, si scuote la polvere di dosso e riprende l’attraversamento della valle solitaria che fa da specchio alle nostre esistenze. Cammina verso l’ignoto, ma sa che malgrado tutto non temerà alcun male.