Dalla fine degli anni 90 ad oggi è ormai abitudine invalsa quella di introdurre ogni disco di Lisa Germano lamentandone la poca esposizione mediatica, la presunta incompatibilità coi tempi e i mezzi odierni, l’inspiegabile semioblio discografico. Dopo il consueto elenco di artisti per cui ha collaborato in qualità di polistrumentista e compositrice, è inoltre abitudine mettere il suo lavoro a confronto con colleghi e colleghe che, redivivi dai 90s, sopravvivono alla dispersione dei social media, alle mode passeggere e alle più diverse forme di “retromania”, per dirla con Reynolds; mode che pescano dal passato per forgiare sempre nuovi stili, ma che ancora sembrano bypassare il cantautorato confessionale, visionario e claustrofobico, di cui Germano è, probabilmente, regina incontrastata. Michael Gira, che nel 2006 la convinse ad uscire da un lungo silenzio e pubblicò sulla sua Young God i due album In The Maybe World e Magic Neighbor, oltre a una riedizione del suo capolavoro Lullaby for Liquid Pig, così sintetizzò il mistero Germano: “No one sounds like her”. Niente più, niente meno. Interrogata (n.d.r. leggi l’intervista su Examiner) sul suo passato discontinuo, Lisa riconosce alle etichette che l’hanno accompagnata (o abbandonata) per strada (Capitol, 4AD tra le altre) di aver fatto il possibile per promuovere la sua musica: «My music is definitely an “unusual cup of tea”. It takes effort to appreciate my work – it’s like delving into a book». Gli anni passano e, per nostra fortuna e grazie all’etichetta di Portland Badman Records, No Elephants torna a dischiudere fugacemente, con poco più di mezzora di musica, la meraviglia e l’idiosincrasia del suo immaginario sonoro e narrativo. Prodotto nuovamente da Jamie Candiloro il disco è contraddistinto da quell’atmosfera domestica che Lisa sperimenta dalla metà degli anni 90 (e forse meglio esemplificata dalla qualità ovattata di Slide), un piccolo universo chiuso in cui si entra in punta di piedi. Il cliché dell’ “ascoltatore intruso” nei dischi di Lisa diventa quasi un’arma di sopravvivenza: chi la conosce sa che a fianco dell’immancabile sarcasmo e dei picchi di felice comunione col mondo, Lisa è capace di snocciolare, con quel suo timbro aspirato, arioso, le più oscure riflessioni sulle brutalità della vita: isolamento, depressione, precarietà, dipendenze e incomunicabilità. Dal suo disco più oscuro e celebrato, Geek the Girl, che sviscerava la brutalità e la bellezza del “non appartenere”, a oggi, passando per le ninna nanne alcoliche cantate a se stessa di Lullaby for Liquid Pig, Lisa non ha mai fatto economia d’intimismo. Lo sforzo di seguirla in questi saliscendi emotivi, quasi sempre compensati da improvvisi, imprevedibili attimi di felicità, è sempre ben ripagato. No Elephants unisce il consueto spirito animalista (la passione per i felini, in particolare, è un altro tema costante della sua discografia: ascoltate Excerpts from a Love Circus per apprezzare i contributi canori dei suoi mici) a una critica ai più recenti mezzi di comunicazione, che, secondo Lisa, ci allontanano sempre più dall’ideale di interazione umana dal vivo. Quali storie ci raccontiamo per davvero, dal momento che tutto ormai viene raccontato e condiviso? Questo è l’unico vero, paradossale “elephant in the room” rimasto nel XXI secolo, il fatto di non avere più “elephants in the room” a metterci in imbarazzo. Le riflessioni di Lisa paiono leggermente anacronistiche e come sempre trovano un delizioso letto sonoro in composizioni fuori dal tempo, perlopiù eseguite al piano e impreziosite da rumori, field recordings, versi, fischi, battiti d’ali e bizzarrie… telefoniche: oltre a un malinconico, piccolo tema musicale che apre, chiude e ricorre nel disco (espediente già adoperato in passato), troviamo le vibrazioni, suonerie e intermittenze dei telefoni cellulari impiegati a mo’ di drum loops. Dance of The Bees aggiunge una preziosissima perla alla collezione di inquietanti, lynchiane composizioni strumentali disseminate nella discografia di Lisa. I cellulari diventano api e improvvisamente natura e tecnologia trovano il loro improbabile, fiabesco equilibrio. Per la prima volta da un po’ di tempo Lisa insiste sul falsetto e i brani compiono dei veri e propri guizzi, evitando certe monocordi, indulgenti malinconie del passato, fatta eccezione per la programmatica Apathy and The Devil. La splendida No Ruminants incarna alla perfezione questo senso di ricambio (“four stomachs/throw up/startover/I need four stomachs/to deal”). Le consuete ballate al piano vengono quasi sempre interrotte o tormentate da agenti esterni come l’improbabile carovana da circo di A Feast (che con “What of the fois gras/God help us all” si qualifica uno dei versi più bizzarri della carriera) o l’invasione di animali di …And So On. L’impatto emotivo dei brani di Lisa si riconferma garanzia di inimitabile bellezza, pur nel suo ribadire lo stile sospeso e intorpidito degli ultimi due dischi e nel suo ritardare la stesura di un disco più marcato, memorabile, come tanti ne ha scritti in passato. Il prezzo da pagare per questo senso di distacco dal mondo è, ironia della sorte, quello di una certa incomunicabilità. Questo riapparire e poi scomparire per anni senza dare notizie di sé, poi, è forse il vero “elephant in the room” di Lisa Germano, oltre che uno dei motivi per cui, all’uscita di ogni album, si sente sempre l’esigenza di reintrodurla come fosse la prima volta. A chi non la conosce un solo consiglio: recuperate tutto.