E’ languida questa versione che ci si presenta dei Jesse Sykes & The Sweet Hereafter. La principessa dal viso affilato e dai capelli sottili annuncia, a distanza di quattro anni, l’ultimo lavoro e il nuovo tour europeo (Olanda, Roadburn festival, 15 Aprile). Accompagnata da Phil Wandscher (ex-chitarrista dei Whiskeytown) e la sua band, la cantautrice di Seattle si è avventurata negli sviluppi più dark che la sua voce e il suo stile potessero offrire. Risultato? Un mix bizzarro e anacronistico, ma certamente non sgradevole. Un pastiche che spazia dal country-folk alla Johnny Cash, ai colpi di penna degni di Tim Buckley giungendo fino a momenti pregni di chitarre psichedeliche esasperate in riff continui e ciclici, come nel caso degli ultimi due minuti della prima traccia, Hushed By Devotion. A sorreggere questa impalcatura, le braccia affusolate di Jesse e la sua voce, capaci di donare momenti di pura redenzione emotiva. E del resto, l’omonima canzone del disco, Marble Son, sembra dire proprio questo; un coro soffuso quasi spirituale parla di felicità in ogni luogo, crescendo rinvigorita qua e là da tocchi di rullante. Una vera e propria ballata dal sapore antico, quasi un canto delle prime madri immerse in pianure nebbiose e vastissime. Immaginare con questo disco diventa un’attività naturale, le melodie solleticano la voglia di viaggiare o di abbandonarsi rasserenati a terra. Cori eterei abitano l’album, la chitarra accenna appena alla direzione da seguire finché il suono non si apre descrivendo paesaggi che oscillano tra il suggestivo e il cupo, come nel caso di Come to Mary. L’album procede per alcune tracce seguendo la stessa impostazione fino a trovare una svolta con Ceilings High. La canzone sembra capitare nel momento opportuno per movimentare il disco; due colpi al tamburo e altrettanti alla chitarra dal sapore più elettrico, la voce di Jesse è più nasale e pungente. Un pezzo in stile country leggermente jazzato che conferisce profondità al disco che rischierebbe di diventare troppo piatto e monotono. La stessa atmosfera si ritrova anche in Pleasuring the Divine e Your Own Kind. L’introduzione è delegata al duetto tra percussioni e chitarre e al basso modesto di sottofondo, un impasto sonoro di ottimo rock a seguito del quale ci si aspetterebbe un vigoroso e accattivante ingresso vocale. In realtà questo non accade; la centellinata parte sonora di Jesse è riconfermata, sembra quasi che si faccia da parte lasciando al batterista e a Phil il compito di duettare. Ammaliante e distaccata, Jesse si concede su poche strofe, ispirando a fondo le note e soffiandole fuori riscaldate. Forse dopo Oh, My Girl (2004) e il successivo Like, Love, Lust & the Open Halls of the Soul, ci si attendeva qualcosa di più da questo sodalizio sonoro. Le potenzialità vocali di Jesse sembrano essere gelosamente custodite entro la ripetitività delle canzoni così come le sonorità create ad hoc dal collega/compagno, Phil Wandscher, vero produttore del sound del disco. In questo lavoro è prevalsa la volontà di produrre canzoni essenziali al limite dell’ermetico; le ballate sono ridotte all’osso, gli arrangiamenti scarnificati e asciutti. Rispetto ad alcuni pezzi di Oh, My Girl (Troubled Soul, Oh, My Girl, House By The Lake) come di Like, Love, Lust & the Open Halls of the Soul (LLL, Eisenhower Moon) , la varietà di strumenti si è alquanto assottigliata; scomparsi il timido banjo, l’accenno di fiati, gli archi, resta la chitarra importante di Phil che si estende in sfoggi di assoli amplificati come in Pleasuring The Divine. A Marble Son vanno dedicati più ascolti e se forse non sarà appieno gradita la cadenza pacata dell’album sicuramente sarà apprezzata la particolarità e l’eleganza della composizione.