If you can see the front and back, it means that you, the viewer, are in the picture….(you) are not a voyeur looking from a distance…(you’re) participator
(Hockney on Photography)
Jess Bryant è cresciuta in mezzo ai suoni della cultura musicale classica suonando violino e pianoforte fin da bambina e avvicinandosi alla chitarra dai 15 anni in poi, probabilmente per la necessità di creare una deriva creativa dal suo percorso di studi. Difficile stabilire quando ha cominciato a sviluppare il personalissimo songwriting che anima la sua musica, più semplice la verifica attraverso la rete dei numerosi concerti a cui Jess ha partecipato, da sola o come sostegno al progetto collettivo Mandala, la folk band di Neil Rhys Marsh dove Jess presta voce e Zither, strumento che pur non essendo presente nelle sue composizioni, ne dischiude una delle letture possibili, in bilico tra percorsi musicali, culturali, percettivi, che collidono. I Brani di Jess Bryant che ci è capitato di ascoltare, sono tutti presenti sul profilo myspace ufficiale, al momento l’unica stazione di transito per incontrare i suoni di questa straordinaria songwriter Londinese, la cui appartenenza all’universo disseminato del folk può essere definita solo a partire dalle violazioni della forma che il suo talento vocale mette in atto. In un viaggio psicometrico che ci costringe a percorrere tempi eretici, la tradizione di Jess è quella sfiorata da Peter Hammill o da Shara Worden, dove il sistema compositivo non regola tutto, ma è un’esca per qualcosa, venatura che spacca la porta del tic generico. La flagranza delle registrazioni, anche in termini strettamente timbrici e qualitativi, azzera la sovrimpressione (a tratti perfetta) percepita come trucco, e rintraccia nell'(im)perfezione la forza di un riverbero naturale, di un sustain sovrumano che alloca la voce in una posizione predominante, oltre la performance e totalmente dentro le increspature dell’abisso compositivo. Ghost of our love è la prima traccia che parte in automatico dal player integrato; brano spettrale e annichilito nel tempospazio come lo storytelling dei Faun Fables, muove il livello d’attenzione sull’intreccio vocale grazie alla cronometria di una chitarra essenziale e tagliente, e sorprende con un sospiro che gioca sulla presenza e la presa diretta: this is the ghost of our love, con(tro) un sustain che potrebbe essere infinito. Se Hand That Rocks the world è mise en scène dello stesso dolore apocalittico, condotta con una potenza corale e spiraliforme davvero unica, Forest ha la dolcezza desolata del folktale di Peggy Lee, conciso e chiuso in un piccolo guscio, esce dalla durata (tre minuti scarsi) grazie ai percorsi modali che sembrano i preferiti da Jess Bryant, se non fosse per Hides in Rain, brano registrato dal vivo e che sfrutta un riverbero naturale/artificiale lanciato verso un soul oscuro e vibrante. Jess bryant è artista su cui scommettere;i brani citati in questo articolo sono scaricabili dalla pagina www.myspace.com/jkcbryant