In barba a Hitler e ai puristi della razza, la scienza insegna che il vigore ibrido migliora la specie, la rende più forte, più resistente alle malattie, più longeva. Una dinamica che spesso e volentieri si replica sul piano della cultura e dell’arte: la contaminazione fra background differenti – oltre che occasione di crescita interiore – può rivelarsi un escamotage per sfuggire ai vicoli ciechi cui la creazione artistica va ciclicamente incontro. Negli ultimi tempi la Francia si è dimostrata terreno fertile per questo particolare tipo di meticciato, offrendo rifugio ed esposizione mediatica a musicisti nati e cresciuti in terra d’Africa. Dopo la marocchina Hindi Zahra, di cui abbiamo parlato lo scorso anno, sale alla ribalta il senegalese Lëk Sèn, già membro in patria del collettivo hip-hop SSK e qui alla sua prima prova da solista. Burn è un’opera eccitante e misteriosa che si porta dietro tutto il retaggio del folk africano occidentale, declinato in chiave cantautoriale ed arricchito di innesti reggae, tanto da presentarsi come una sorta di vademecum terzomondista. Le composizioni nascono per voce e chitarra, ma in fase di arrangiamento sono state rivisitate con il prezioso contributo di Yvo Abadi et Miguel Saboga, percussionisti del gruppo francese Dirty District. I due hanno accentuato la componente tradizionale, sfruttando il suono di strumenti tipici quali balafon, djembe e claves. Brani prevalentemente acustici, carezzati dalla voce profonda e avvolgente di Sèn, si sposano dunque a briosi poli ritmi. Cantilene rituali come Life o Enfant Soldat sfruttano al meglio le dinamiche ritmiche fornite dal doppio assalto percussivo, valorizzando al contempo il lavoro di cesello svolto dalla chitarra (che potrebbe ricordare lo stile di altri grandi protagonisti del rock africano, i BLK JKS da Johannesburg) e prestando particolare attenzione agli energici call-and-response fra il registro basso di Sèn e i cori femminili. Rebel Blues o Sa Nitee seguono lo stesso tracciato, sebbene in questo caso l’influenza del reggae si riveli più marcata: i ritmi si fanno lineari e i bassi pompano vibrazione pura. L’ibridazione con il sound giamaicano è ancora più evidente nelle ballate Frica Sound e Neekal: corale e trascinante la prima, avvolta nella malinconia più profonda la seconda, ma entrambe debitrici di un suono tipicamente roots. Sul finale la musica tracima gli argini della forma canzone, dilagando secondo traiettorie psichedeliche e caricandosi di una valenza quasi religiosa: Massamba si appoggia ad un ipnotico tappeto di darbuka, mentre la chitarra dell’ospite Amadou Bagayoko (eroe del blues maliano) si perde in semi-improvvisazioni elettriche dal retrogusto acido e sabbioso; Ana Ngeen, sorretta dagli incastri vocali e dal suono delle claves, ci proietta in scenari primitivi; la splendida title-track è puro nyabinghi e arriva a ricordare nientemeno che il leggendario Count Ossie. Musica per i piedi e per lo spirito.